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Mi sono accostato con passione alla Bibbia dopo un viaggio in Israele fatto con la mia famiglia nel 1978

sabato 31 dicembre 2011

I SIMBOLI DELLA MESSA Pillole di liturgia della messa Molti cristiani, io compreso, se ci dovessero interrogare sui significati, sui simboli, sugli atti che si svolgono davanti a noi ogni domenica, sarebbero piuttosto imbarazzati a rispondere. Le parole “Liturgia” o “Messa” o altro ci sfuggono. Sappiamo certamente cosa sono ma cosa significhino, quale sia il loro significato storico o anche pratico, beh, questo lo ignoriamo. Può darsi. Ma, io credo che, conoscendone i significati, possiamo partecipare più coscientemente e più attivamente al rito domenicale della messa. Quello che sto proponendo non è un trattato di liturgia cattolica, ma delle semplici annotazioni, dei modesti riferimenti (che ho chiamato “pillole” di liturgia) a quanto si svolge durante la celebrazione eucaristica domenicale sotto i nostri occhi. Conoscerle aiuta a essere più attenti e partecipativi alla “nostra” messa della domenica. Dico subito che non è tutta farina del mio sacco, ma ho cercato di sintetizzare e semplificare un piccolo libro di liturgia scritto diversi anni fa, subito dopo il Concilio Vaticano II, e da me utilizzato per dipanare dubbi e incomprensioni che mi venivano durante la celebrazione della messa. E’ un libricino molto più esteso ed io ho solo cercato di sintetizzarlo in un italiano comprensibile. Conservando queste semplici annotazioni, si avrà un piccolo manuale di consultazione e lo stimolo per approfondire ulteriormente le nostre curiosità. Ovviamente sono a completa disposizione per chiarire ciò che non sembra chiaro, nei limiti delle mie capacità e competenze. LITURGIA. Liturgia deriva dal greco Leiton (popolare, pubblico) e érgon (opera) cioè un’opera, un’azione, in genere di natura religiosa, sacra che si svolge in pubblico, di fronte ad un’assemblea opportunamente convocata. MESSA. La parola “Messa” ha un’origine antichissima e si riferisce alla formula “Ite, missa est” che doveva significare “[l’eucaristia ] è stata mandata [ agli assenti e alle chiese vicine]“, come si usava al tempo delle persecuzioni. Più tardi queste due consuetudini della chiesa primitiva sparirono, e l’espressione, non più intesa letteralmente, fu interpretata secondo la funzione semantica che aveva preso, cioè come “congedo” e “compimento della celebrazione del rito divino”. Insomma nella parola “missa” (o messa) si nasconde il ricordo augusto di quella solidarietà cristiana che ebbe nel sacrificio eucaristico il suo “sacramento di unità”. Il rinnovo della Pasqua di Cristo, che noi oggi chiamiamo “messa”, dai primi cristiani era chiamato “Coena Domini” (la Cena del Signore) ricordando l’ultima cena del Signore Gesù in cui, benedicendo il pane e il vino, invitò a perpetuarne la memoria in suo ricordo. La nostra è un’assemblea liturgica il cui presidente è Gesù stesso che presiede in modo invisibile ogni celebrazione eucaristica.(Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica.) Noi adesso ci accingiamo non a fare memoria ma a rivivere il sacrificio di Gesù, presente sotto le specie del pane e del vino. Il primo gesto del sacerdote. Il primo atto del sacerdote (o dei sacerdoti ) celebrante è la venerazione dell’altare: si inchina davanti e lo bacia. Baciare l’altare è un gesto di venerazione e di affettuoso rispetto ed esprime l’attitudine di adorazione verso Cristo. Nell’antichità si portava la mano alla bocca per lanciare un bacio a qualcuno o si portava alla bocca il bordo della veste di colui che si voleva onorare. Dal portare alla bocca (“a ora” cioè “alla bocca”) verrebbe la parola “adorare”, ma è un’etimologia poco sostenibile. L’altare non è semplicemente “ il centro dell’azione di grazia”, la tavola sulla quale si celebra “ la cena del Signore”, ma è il segno tangibile di Gesù Cristo in mezzo alla sua comunità. L’altare è CRISTO. Il sacerdote si accinge a dirigere la celebrazione, ma, primariamente, vuole rendere chiaro di fronte a tutta la comunità riunita, il suo amore e la sua adorazione nei confronti di Gesù Cristo, il Signore che ha sedotto il suo cuore. Non è più che un servitore del Signore in mezzo a molti altri: assume semplicemente un ministero particolare, quello della presidenza dell’assemblea. A questo punto c’è da chiedersi: < Chi celebra la messa?> Una volta si diceva che era il sacerdote e la comunità assiste (manco fosse uno spettacolo!). In realtà bisogna rispondere: la comunità col suo sacerdote, celebrando ciascuno per quanto di sua competenza. Ancora: Una volta si diceva che era il sacerdote, ma in realtà è Cristo! Saluto del sacerdote. Dopo aver invocato la Santa Trinità col segno della Croce, il sacerdote saluta l’assemblea con la formula: < Il Signore sia con voi>. Oppure con una formula trinitaria: (2Cor.13,13) < La grazia di Nostro Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi >. Oppure l’altra ugualmente cristologia: < La grazia e la pace da parte di Dio, nostro Padre e del Signore Gesù Cristo, sia con tutti voi >. All’inizio del suo Vangelo, Matteo aveva sottolineato il mistero di Cristo: < E gli metteranno il nome di Emmanuele, > che significa “ Dio con noi” (1,23) e alla fine di esso < Io sarò con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo>(Mt 28, 20). Tutta la vita di Gesù e tutto il messaggio del suo Evangelo si riassumono in questa doppia affermazione della presenza costane e continua dell’Emmanuele. Queste due affermazioni sono come due pilastri su cui posa l’arca che permette alla comunità di passare dalla Nascita di Gesù fino alla sua Risurrezione. La liturgia afferma che tutta la celebrazione eucaristica si fonda sopra l’Emmanuele e la comunità, trasfigurata in corpo di Cristo, si trasforma a sua volta in “ Emmanuele “ per il mondo. Atto penitenziale. Tutta la Chiesa, perfino nei suoi membri più peccatori, è Santa, “ senza macchia né ruga” (Ef.5,27). E’ santa con la medesima santità di Gesù. La sua santità consiste nel riconoscersi peccatrice, al fine di poter ricevere il perdono di Gesù. Pertanto, risulta del tutto normale che la celebrazione cristiana implichi il riconoscimento e il perdono dei peccati. Quindi il sacerdote, al fine di partecipare degnamente ai Santi Misteri, invita l’assemblea tutta, dopo essersi riconosciuta peccatrice, a chiedere perdono. Esistono diverse formule, la più antica delle quali è, forse, quella triplice invocazione trinitaria del “Kirie, eleison”. E’ in lingua greca, la lingua in cui furono scritti tutti i libri del Nuovo Testamento e la lingua nella quale veniva, all’inizio del Cristianesimo, celebrata la “Cena del Signore . “Corrisponde al “Signore, pietà”, ma con un significato aggiunto, che è quello di avvicinarci e tener presenti i fratelli cristiani di rito orientale che ancora usano questa antichissima e gloriosa formula. Anche se sono da noi separati, sono sempre e comunque i nostri fratelli in Cristo. Comunque, quale che sia la lingua usata, greco o latino o italiano, il senso non cambia: ci riteniamo peccatori e chiediamo il perdono del Signore Gesù Cristo. Gloria a Dio nell’alto dei cieli. Il “Gloria a Dio” è uno degli inni più antichi che pietà cristiana abbia mai composto in onore di nostro Signore Gesù Cristo. La liturgia orientale usa chiamarla “ la Grande Dossologia” (dossologia = lode) in opposizione alla piccola dossologia del “Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo….”. Secondo Sant’Atanasio ( morto nel 373), quest’inno figurava anticamente nelle lodi dell’orazione del mattino. All’inizio riproduce l’inno degli angeli in occasione della Nascita di Gesù in Betlemme ed è forse per questo che fu incluso nella liturgia del Natale intorno al VI secolo. All’inizio la sua esecuzione era riservata alla messa del vescovo, ma, intorno all’VIII secolo, la sua diffusione era totale. E’ uno degli inni più belli della tradizione cristiana. La sua bellezza non è tanto nella sua stesura letteraria (per quanto pare che nessuna traduzione in una delle lingue moderne possa restituire il brillìo della prosa ritmica greca) quanto nella sua lode a Dio. Il Padre, fonte di ogni benedizione, ci ha predestinati, “prima della creazione del mondo”, a essere, alla presenza sua nell’eternità del suo amore, viventi “lodi della sua Gloria e della sua Carità” (Ef 1,3-6). Così, all’inizio della messa, cantando Gloria a Dio ci uniamo agli angeli per proclamare questa gloria: < Noi Ti lodiamo, Ti benediciamo, Ti adoriamo, Ti glorifichiamo, Ti rendiamo grazie per la Tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente>. Come un mazzo di fiori, dai colori più diversi e abbaglianti, il “Gloria” riunisce in un fascio di lodi le differenti forme dell’umana orazione. E’ a questo punto, per la prima volta dall’inizio della messa, che la comunità entra pienamente nella celebrazione sacerdotale per la quale è stata convocata. Il “Gloria “ è un inno e come tale andrebbe cantato. Non cantarlo sarebbe come se recitassimo e non cantassimo l’inno nazionale. COLLETTA. I riti di apertura si concludono con l’orazione chiamata “Colletta” che significa raccolta. Fin dai primi tempi i cristiani, insieme con il pane e con il vino per l’Eucaristia, presentavano i loro doni perché fossero condivisi con coloro che si trovavano in necessità. Questa consuetudine della “Colletta”, sempre attuale, trae ispirazione dall’esempio di Cristo che, da ricco che era, si è fatto povero per arricchire noi; così il Catechismo della Chiesa Cattolica. Presumibilmente la raccolta riguardava beni d’immediata necessità, quali alimenti, di cui i fratelli più poveri avevano bisogno. Quest’uso è ormai scomparso, ma ciò non toglie che i partecipanti all’assemblea non possano mettere insieme le loro personali richieste da presentare come popolo di Dio. Queste orazioni della colletta nate in latino manifestavano tutta l’impronta gloriosa della lingua: sobrietà, dignità, gravità che nessuna traduzione nelle lingue moderne ha saputo forse riprodurre. Le orazioni usate oggi dalla liturgia rispecchiano i consigli della Costituzione conciliare “Sacrosantum Concilium” sulla Sacra liturgia: semplicità, trasparenza, brevità, “adatte alla comprensione dei fedeli” e senza necessità di spiegazioni. ALTARE E AMBONE. L’altare è la mensa dove si consuma il sacrificio eucaristico. Abbiamo visto che esso si identifica con Cristo stesso, presente e presidente dell’assemblea da Lui convocata. Sopra l’altare niente vi deve essere se non ciò che è indispensabile per il Sacrificio Eucaristico. Pertanto doni, fiori, offerte tradizionali varie andrebbero messe ai piedi dell’altare, lasciando l’altare libero da oggetti estranei al rito. L’ambone è il trono su cui viene intronizzata la Parola di Dio. Non deve essere un semplice leggio, per di più mobile ma stabile, di pietra, architettonicamente il più possibile simile all’altare. Detto chiaramente: la teologia delle due tavole, quella della Parola e quella dell’Eucaristia, non deve esprimersi soltanto sul piano intellettuale ma anche sul piano architettonico. Altare e ambone architettonicamente devono elevarsi sul piano della chiesa non solo al fine di essere visti da tutta l’assemblea, ma anche a esprimere l’elevatezza dei riti in esso compiuti. In certe celebrazioni solenni l’Evangeliario o Lezionario è processionalmente messo sul trono a significare e sottolineare il rispetto che si deve avere per La Parola. Essendo quindi l’ambone, il posto esclusivo della Parola, da esso non può venire nessuna parola umana. Pertanto essi si dovrebbero usare solo per le letture liturgiche, il salmo di risposta, l’Alleluia, la lettura del brano evangelico. Si può aggiungere l’omelia del sacerdote (che è comunque assimilabile, per certi versi, a Parola di Dio) e la preghiera universale. Ogni altra utilizzazione, come annunci vari, direzione di canti, commenti liturgici o altro è quanto meno inopportuna. Liturgia della Parola. Terminati, come abbiamo detto, i riti di apertura la celebrazione prosegue con le due parti principali: la liturgia della Parola e quella del Sacrificio eucaristico. Sono due parti inscindibili l’una dall’altra: senza la Parola il sacrificio eucaristico perde di significato, come pure la Parola, priva del Sacrificio Eucaristico, perde di vigore. Gesù non lo si può riconoscere come lo conoscevano i suoi discepoli ed apostoli << sicché viene scoperto solo nell'ambito della fede; interpretando le Scritture egli infiamma il cuore dei due pellegrini ( di Emmaus ) e spezzando il pane apre loro gli occhi. Qui abbiamo una chiara allusione ai due elementi basilari della liturgia cristiana primitiva, che si compone appunto di liturgia della parola (lettura e spiegazione della S. Scrittura) e di frazione eucaristica del pane. In tal modo, l'evangelista ( Luca) lascia capire che l'incontro col risorto viene a collocarsi su un piano completamente nuovo; utilizzando le 'cifre' dei dati liturgici, egli tenta di descrivere l'indescrivibile. Ci dà cosí una teologia della risurrezione e al contempo una teologia della liturgia: il risorto s'incontra nella Parola e nel sacramento; l'azione liturgica è la maniera in cui egli si rende a noi percettibile, riconoscibile come il Vivente. E argomentando in modo inverso: la liturgia si fonda sul mistero pasquale; essa va intesa come un avvento del Signore fra noi, che lo porta a farsi nostro compagno di viaggio, ad infiammarci gli ottusi cuori e ad aprirci gli occhi serrati. >> (J. Ratzingher). Un tempo (prima della riforma liturgica del 1969) si diceva che uno aveva adempiuto il precetto della messa festiva purché assistesse al sacrificio eucaristico, quindi anche dopo l’omelia. Oggi, per fortuna, non è più così. La Parola di Dio e il Sacrificio Eucaristico hanno uguale importanza ed è necessario essere presenti a tutta la messa per soddisfare il precetto festivo. Umanamente parlando: se fossimo convocati da un’autorità massima, supponiamo il Presidente della Repubblica, non credo che nessuno si presenterebbe in ritardo all’appuntamento. Oggi siamo convocati da Gesù, da Dio stesso in persona: <LE LETTURE. Le “letture” sono articolate in forma di dialogo tra la Parola che procede da Dio e la parola che procede dalla comunità. Dio parla attraverso il brano dell’Antico Testamento. La comunità risponde con il: Salmo (cantato o recitato) Dio parla attraverso il brano delle Epistole del Nuovo Testamento. La comunità risponde con un canto di lode: Alleluia. Dio parla attraverso il brano del Vangelo e la sua spiegazione: l’Omelia. La comunità risponde col Credo e prega: Preghiera universale. La lettura del brano dell’Antico Testamento ci riporta alla storia del popolo ebreo e della sua fede in quell’unico Dio che l’ha scelto fra tanti altri popoli, che l’ha condotto in quella terra che gli aveva promesso, che gli ha parlato attraverso i suoi profeti, che gli ha promesso la salvezza e che non l’ha mai rinnegato non ostante i suoi innumerevoli peccati e tradimenti manifestandogli continuamente il suo amore immutabile. IL SALMO. Il popolo alle parole del brano che gli ricorda quanto e quando il Signore ha fatto per lui risponde con parola di ringraziamento, manifestando l’amore che nutre per il proprio Creatore e invocandone la misericordia e il perdono. I Salmi sono composizioni poetiche che erano cantate dal popolo ebreo durante le solenni celebrazioni nel Tempio di Gerusalemme. Certi sono antichissimi, risalenti ai tempi di re Davide che, si dice, ne abbia composto una buona parte e che datano a circa il 1000 a.C., a ben tremila anni prima di oggi! Per tremila anni il popolo ebraico prima e poi popolo ebraico e popolo cristiano hanno invocato la misericordia di Dio, hanno manifestato la propria fede, hanno espresso le loro richieste, i propri bisogni e preghiere. E’ singolare che popolo ebreo e popolo cristiano si rivolgano all’unico Dio con le stesse parole, con gli stessi sentimenti. Con la lettura o il canto del salmo, il popolo risponde al Signore che ci ha parlato attraverso le parole del brano dell’Antico Testamento. SECONDA LETTURA. Il Signore parla ancora attraverso la lettura di brani scelti dalle lettere in genere di S. Paolo ma anche di S. Pietro, S. Giacomo e S. Giovanni. Sono questi delle interpretazioni, delle applicazioni pratiche di vita cristiana, sono degli ammaestramenti di come debba comportarsi il cristiano in ogni frangente della vita. S. Paolo ci invita a riflettere sui contenuti teologici della vita cristiana, il senso intrinseco della vita in Cristo. Questo gigante della teologia era prima irriducibile avversario e feroce oppositore dei seguaci di Gesù di Nazareth in nome della tradizione giudaica per poi, dopo un drammatico incontro con Gesù sulla via di Damasco, diventare l’elaboratore della teologia cristiana coniugando cristianesimo, cultura greca e Legge di Mosè. S. Pietro e S. Giacomo danno consigli, in genere, su come vivere da cristiani, mentre S. Giovanni, specialmente nella prima delle sue lettere, canta l’Amore di Dio per le sue creature (“Dio è Amore”) e l’amore del cristiano per Dio. ALLELUIA. Alle Parole di Dio della prima e della seconda lettura l’assemblea, mettendosi in piedi, risponde innalzando un canto di lode e di benedizione con il canto del “Alleluia”. Alleluia è l’adattamento alle lingue occidentali dell’ebraico “Hallelu- Jah” cioè “lodate- Jah(veh)”. Ovviamente questa lode deve essere fatta con animo lieto, con gioia. (Non si può fare un complimento a una persona con animo triste, ma almeno col sorriso sulle labbra). Anche l’”Alleluia”, come il “Gloria”, dovrebbe essere di rigore cantato, come lo s’incontra nella liturgia celeste dell’Apocalisse (19,1.3.4.6) quando gli angeli cantano a gran voce le lodi di Dio. E’ la seconda volta che l’assemblea, nella celebrazione eucaristica, si unisce al coro delle miriadi di angeli che certamente circondano anche la più piccola e umile assemblea celebrativa, gli fanno corona, lo avvolgono quasi a proteggerla dalle insidie del maligno, unificando la celebrazione terrena e quella eterna e ininterrotta che si svolge al cospetto dell’Altissimo. LETTURA DELL’EVANGELO. La proclamazione del Vangelo è considerata l’apice della liturgia della Parola. Non che le letture del Nuovo e dell’Antico Testamento siano meno importanti (Gli scritti di Mosè - diceva S. Ireneo – sono le Parole di Cristo), ma perché questa parte della liturgia riporta le autentiche parole di Cristo, anche se filtrate dalle parole umane dello scrittore. L’evangelista è spesso testimone oculare dei fatti narrati e delle parole riportate come nel caso di Marco, Matteo e Giovanni oppure i fatti furono da lui riportati sulla testimonianza degli Apostoli o di persone presenti agli avvenimenti narrati e degni di fede sulla loro veridicità (Luca). Nella liturgia ebraica i testi della Sacra Scrittura sono letti per intero, o quasi, nell’arco di tre anni. Similmente nella liturgia cattolica si leggono i Vangeli sinottici interamente nell’arco dei tre anni del ciclo liturgico (Anno A; Anno B; Anno C). I Vangeli di Matteo, Marco e Luca si dicono “sinottici”, cioè sovrapponibili, perché, pressapoco, raccontano gli stessi avvenimenti, mentre i brani del Vangelo di Giovanni la liturgia li propone nei periodi di Avvento e Quaresima. Nell’anno “A” si legge il Vangelo di S. Matteo, nell’”anno “B” si legge il vangelo di S. Marco, mentre nell’anno “C” si legge il Vangelo di S. Luca, mentre i brani del Vangelo di S. Giovanni la liturgia li propone nei periodi liturgici così detti “forti”". Alla lettura dell’Evangelo fa seguito la: OMELIA. La diffusione delle “Bibbie” tra il popolo cristiano ha portato la nostra epoca a un livello mai raggiunto di conoscenza, anche se talvolta superficiale, della Parola di Dio. Senza dubbio però, per l’immensa maggioranza dei fedeli, di fatto, le letture della liturgia eucaristica, rappresentano la sua unica Bibbia, l’unico contatto con la Parola di Dio scritta e l’omelia, la spiegazione che ne fa il sacerdote alla fine, rappresenta l’unica attualizzazione e applicazione pratica di essa. A questo c’è da aggiungere che, a causa del minimalismo domenicale (l’andare a messa solo una volta la settimana), i fedeli (e stiamo parlando solo dei praticanti) entrano in contatto con la Parola di Dio solamente una volta a settimana. Tutto questo per evidenziare l’importanza dell’omelia che il sacerdote, nelle celebrazioni domenicali, ha l’obbligo di non omettere se non per gravi motivi. Essa è la spiegazione e attualizzazione della Parola di Dio e, pur essendo parola umana, per l’argomento che tratta, è assimilata alla Parola di Dio. Il sacerdote spiega quello che è stato letto, rendendolo comprensibile, adattandolo il più possibile ai membri dell’assemblea liturgica. Così se è una messa in cui prevale la presenza dei fanciulli, cercherà di adattare la spiegazione in modo che questi possano capire e renderla propria. All’obbligo del sacerdote si contrappone il dovere del fedele di ascoltare la Parola di Dio: “Parla, Signore, che il tuo servo ti ascolta”(1Sam.3,10). Questo non impedisce, anzi sarebbe auspicabile che ciascuno, in altra sede e in altro momento, meditasse sulla Parola ascoltata e ne facesse un’attualizzazione personale legandola alla sua vita e ai suoi problemi particolari. Il Signore parla a tutti. A tutti quelli che lo vogliono ascoltare e che lo invocano con animo puro e non settario, il Signore manda lo Spirito Santo affinché quella Parola diventi comprensibile. CREDO. Nella professione di fede, il popolo manifesta il suo consenso e risponde alla Parola che ha ascoltato nelle letture e nell’omelia e ricorda a se stesso e agli altri i fondamenti della fede esprimendoli con convinzione e perfetta adesione, prima di cominciare a celebrare l’eucaristia. Nella sensibilità popolare, il Credo, soprattutto se è cantato in latino nelle celebrazioni solenni, ha un grande valore emozionale e simbolico: è l’affermazione dell’unicità della fede non solo attraverso le diverse comunità ma anche attraverso i secoli. Ci sono due forme di Credo: quello così detto apostolico che si recita specialmente in Quaresima e in Tempo di Pasqua, e quello così detto Niceno – Costantinopolitano che aggiunge al simbolo degli Apostoli le affermazioni del Concilio di Nicea (325) e quello di Costantinopoli (381). L’inclusione nel Credo delle formule del concilio di Nicea – Costantinopoli servì per chiudere il cammino agli errori cristologici, cioè, alle affermazioni su Gesù Cristo in cui non si riconoscevano le due nature: divina e umana, vero Dio e vero uomo. Nelle celebrazioni feriali, il Credo è spesso omesso senza che l’equilibrio della celebrazione abbia ad essere compromesso. PREGHIERA UNIVERSALE. Essa trae origine presumibilmente dalla liturgia ebraica e in particolare da quella delle diciotto benedizioni con le quali nel Tempio di Gerusalemme si accompagnavano i canti dei salmi e le preghiere tratte direttamente dalla Bibbia come, per esempio, lo “She’ma, Israel…“ (Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio…). Con la preghiera universale, il Vaticano II ha restituito all’assemblea liturgica, per quanto piccola essa possa essere, la sua funzione sacerdotale che le era propria all’inizio del Cristianesimo. Il popolo, fortificato dalla Parola, supplica con la preghiera universale l’intercessione del Padre celeste per le necessità della Chiesa e per la salvezza del mondo intero. Questa preghiera è detta universale non tanto e solo perché si faccia carico di tutte le intenzioni di tutti i membri della comunità celebrante quanto perché, in primo luogo, tutti i membri si facciano carico delle necessità di tutti gli uomini; sì, anche dei non credenti. Non si limita pertanto a presentare davanti a Dio le piaghe e i difetti di tutti i suoi membri: è la preghiera cattolica, cioè, universale di questo popolo sacerdotale in favore di tutto l’universo. Tra sé e le nazioni della terra, Dio ha collocato le comunità cristiane, per piccole che siano. Tra sé e le pene degli uomini, Dio ha collocato l’intercessione della comunità, anche la più piccola. La preghiera universale è il mistero d’amore che lega la nostra comunità all’universo intero. Nelle piccole comunità celebranti sono ben accolte le intenzioni personali che si uniscono a quelle comunitarie per essere presentate ai piedi del trono del Signore. Nelle comunità estese, come quella parrocchiale, le preghiere e le intenzioni personali sarebbero fonte di disturbo e di disordine. Con la preghiera universale si conclude la liturgia della Parola e ha inizio la liturgia eucaristica. LITURGIA EUCARISTICA. Durante la celebrazione della cena, Gesù prese pane e vino, pronunciò la preghiera di ringraziamento e distribuì il pane e il vino ai suoi apostoli. La liturgia eucaristica segue il ritmo della cena di Gesù. Pertanto nella liturgia eucaristica si possono distinguere tre momenti susseguenti l’uno all’altro e indivisibili. 1°- Nella presentazione del pane e del vino con l’acqua il sacerdote offre gli elementi che Gesù Cristo stesso prese nelle sue mani. 2°- Nella preghiera eucaristica diamo grazie a Dio per i doni che gli stiamo offrendo e lo preghiamo che, per la nostra salvezza, il suo Spirito li trasformi nel Corpo e nel Sangue di Gesù Cristo Nostro Signore. 3°- Mediante la comunione, i fedeli ricevono il Corpo (e il Sangue) del Signore nel medesimo modo con cui lo ricevettero gli apostoli. Finita la preghiera universale processionalmente, nelle messe solenni, sono portati all’altare i doni. Dice il Signore (Es.23,15.19): <>. Anticamente, chi ne aveva la possibilità, portava all’altare, oltre gli elementi costitutivi dell’Eucaristia, anche olio per le lampade e doni, in genere alimenti, per i più poveri. Sebbene non siano stati presi dalle proprie case, questo rito dell’offerta dei doni conserva il suo valore e il suo significato spirituale perché si riallaccia a una tradizione antichissima risalente ai primi secoli. Col tempo il dono in prodotti della terra o indumenti, per ragioni di praticità, è stato sostituito dalla questua in denaro per le necessità della Chiesa. Anche quest’offerta è deposta ai piedi dell’altare come offerta personale di ciascuno. PREPARAZIONE DELL’ALTARE. Sull’altare, o ai lati, vi sono almeno due candele accese, esse esprimono onore e rispetto a Gesù e sono il suo stesso simbolo in quanto LUI è la vera luce del mondo, e possono significare anche il simbolo ardente della fede viva della comunità. C’è il messale che è il grosso libro dove sono contenute le preghiere assegnate per ciascun giorno dell’anno secondo le varie feste che si celebrano; il crocefisso a ricordo del sacrificio della sua crocifissione; un vaso di fiori ad adornare la mensa in segno di gioia e di festa che il Sacrificio della Messa rivolge agli uomini; il calice che è la coppa di metallo nella quale è offerto, consacrato e ricevuto il vino per l’eucaristia. Il calice è benedetto dal vescovo o anche da un sacerdote con un rito particolare (al momento è ancora vuoto); la patena (è il piattello dorato o la coppetta nella quale è deposto il pane per l’eucaristia); il corporale (cioè il quadrato di lino bianco inamidato che si stende al centro dell’altare prima di deporvi il calice, la patena e la pisside); il palla (dal latino pallium “piccolo drappo”), un quadretto di lino inamidato, riduzione del corporale, che si può usare per coprire il calice a protezione del vino durante la celebrazione della messa; il purificatoio che è un piccolo fazzoletto di lino che si usa per asciugare il calice, la purificazione, al termine della messa; le ampolline cioè dei vasetti di vetro, o di altro materiale, nei quali si mettono il vino e l’acqua per l’eucaristia; un piccolo bacile per raccogliere l’acqua quando il sacerdote si laverà le mani; un piccolo panno chiamato “manutergio” o asciugatoio, per asciugarsi le mani dopo le abluzioni. Ora tutto è pronto per iniziare la liturgia eucaristica. Il sacerdote distende sull’altare il corporale come fosse il lenzuolo (la sindone) che accolse il corpo di Nostro Signore. Su di esso depone il pane e il vino da consacrare. Questi sono ancora solamente pane e vino. LA PRESENTAZIONE DEL PANE. Gesù, seguendo la tradizione ebraica, aveva usato nell’ultima cena pane azzimo, cioè non lievitato, e la Chiesa, da oltre un migliaio d’anni, se non da sempre, segue questa tradizione. L’uso poi delle ostie, ovviamente rigorosamente azzime, consente anche alla più larga moltitudine di fedeli di partecipare alla comunione eucaristica. La veridicità del segno richiede però che la materia del sacrificio (il pane eucaristico) appaia inequivocabilmente come un alimento. La preghiera con la quale il sacerdote accompagna la presentazione del pane è notevole per la sua bellezza e la sua antichità riallacciandosi direttamente alla preghiera che il pio ebreo pronunciava prima del pasto sopra il pane: Benedetto sei Tu, Signore, Dio dell’Universo. Dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane. Frutto della terra e del lavoro dell’uomo Lo presentiamo a Te perché diventi per noi cibo di vita eterna. E l’assemblea tutta si associa alla preghiera del sacerdote rispondendo: Benedetto nei secoli il Signore. LA PRESENTAZIONE DEL VINO. La tradizione vuole che Gesù abbia utilizzato durante l’ultima cena del vino rosso. Intorno al XV secolo si pensò di usare vino meno colorito per insudiciare meno il panno che era usato al termine della messa per pulire (purificare) il calice. Prima di presentare il vino, il sacerdote aggiunge qualche goccia d’acqua. Questo gesto storicamente ci riporta all’uso antico, anche palestinese dei tempi di Gesù, di aggiungere dell’acqua a un vino, spesso, troppo denso. Ma è graziosa la motivazione che ne faceva Cipriano di Cartagine (256 d.C.): < Se qualcuno offrisse solo vino, succede che il sangue di Cristo non s’incontra con il nostro. Se offrisse solo acqua, è solo il popolo che s’incontra senza Cristo.>. Il sacerdote alza il calice e pronuncia la bellissima invocazione: Benedetto sei Tu, Signore, Dio dell’universo. Dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo vino. Frutto della vite e del lavoro dell’uomo Lo presentiamo a Te perché diventi per noi bevanda di salvezza. INVITO ALLA PREGHIERA. Il sacerdote a questo punto recita a bassa voce una preghiera d’intercessione in nome di tutta l’assemblea. “Umili e pentiti accoglici, o Signore: ti sia gradito il nostro sacrificio che oggi si compie dinanzi a Te” e purifica le proprie mani lavandole con dell’acqua e asciugandole prima di chiedere all’assemblea: “Pregate, fratelli, perché il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio Onnipotente” o con altra invocazione simile, talvolta dettata dalla circostanza. L’assemblea si associa alla preghiera del sacerdote dicendo: “Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio per il bene nostro e di tutta la Santa Chiesa ”. Il sacerdote invita l’assemblea a pregare e lui stesso prega sopra le offerte dell’assemblea (il pane, il vino, l’obolo e quanto ciascuno ha voluto offrire). Tutti siamo qui coinvolti perché è la preghiera sulle offerte. E’ opportuno pertanto che l’assemblea tutta si alzi in piedi per pregare. Concluso il rito di preparazione dei doni con la preghiera sulle offerte, ha inizio la preghiera eucaristica. Si giunge così al momento centrale e culminante dell’intera celebrazione. PREGHIERA EUCARISTICA. Il Sacerdote invita il popolo a innalzare il cuore verso il Signore nella preghiera e nell’azione di grazie, e lo associa a sé nella solenne preghiera, che egli, in nome di tutta la comunità, rivolge al Padre per mezzo di Gesù Cristo. Il significato di questa preghiera è che tutta l’assemblea si unisca con Cristo nel magnificare le grandi opere di Dio e nell’offrire il sacrificio. Gli elementi principali della preghiera eucaristica sono: 1) l’azione di grazie (prefazio); 2) l’acclamazione (santo); 3) l’epiclesi (“manda il tuo Spirito a santificare...”); 4) il racconto dell’istituzione (“nella notte in cui fu tradito...”); 5) l’anamnesi (ricordo) della passione, risurrezione e ascensione di Gesù; 6) l’offerta, la “vittima immacolata”, in altre parole il pane e il vino divenuti Corpo e Sangue di Cristo, è offerta al Padre nello Spirito Santo); 7) le intercessioni (preghiera per la Chiesa, per i vivi e per i defunti); 8) la dossologia finale (Per Cristo, con Cristo...). PREFAZIO. E’ così chiamata la preghiera d’introduzione alla preghiera eucaristica vera e propria o canone. Essa comincia con un dialogo tra il sacerdote e l’assemblea, nella quale il celebrante invita il popolo a innalzare il proprio cuore al Signore, a rivolgere sentimenti e pensiero in quel momento solo a Dio, a fare il deserto intorno a se stessi per potersi indirizzare degnamente a Dio. Un tempo, il prefazio, cantato in latino, in gregoriano, con voce chiara, nitida ed esperta di canto recitativo, assumeva una suggestione oggi sconosciuta. Certamente, alla quasi totalità dell’assemblea, il significato di quelle parole rimaneva incomprensibile, mentre oggi, recitato dal sacerdote in lingua italiana, non può nascondere la bellezza delle espressioni. In realtà, il prefazio non è il discorso che si dice prima del canone, ma piuttosto l’azione di grazia che si proclama davanti alla comunità. E’ un poema, il grido di allegria e di riconoscenza, il canto del mondo che riscopre la sua salvezza, la certezza che fa risplendere la speranza, come deve essere stata la lode al Padre fatta da Gesù il giovedì santo. (Vedi Gio.Cap.17). Certi prefazi antichi, come quello di Ippolito e altri, sono testimoni di questa lode originata in Lui dalla preghiera di benedizione ebraica. Il prefazio termina con un invito a rendere gloria a Dio insieme con gli angeli cantando, o recitando, le tre volte Santo. SANCTUS, SANCTUS, SANCTUS… Esplode ora la gioia infinita del fedele insieme con gli angeli che circondano l’assemblea, con tutti gli angeli, Arcangeli, Cherubini, Serafini della corte celeste, con tutti i Santi che a una sola voce glorificano quel Signore, Dio Onnipotente, Creatore del cielo e della terra. “Santo, Santo, Santo” era il coro degli angeli alla corte celeste nella visione del profeta Isaia (VIII ° secolo a.C.). E’ l’inno che più di qualunque altro andrebbe sempre cantato: è la gloria a Dio dal più profondo del cuore, un ringraziamento per tutti i suoi benefici, per la bellezza della sua creazione. E’ questo l’inno che ci dà la sensazione di non essere soli, di essere spiritualmente uniti nell’acclamazione a Dio con tutta la corte celeste, con tutto il creato, con tutto l’universo. Stelle, astri, pianeti e galassie si uniscono al canto della comunità orante. Si benedice il Padre creatore dell’universo e si benedice il Figlio che viene nel suo nome. Si può lasciare cantare solo il coro? No. Perché se il coro è scadente la nostra mente, si distrae in critiche, se invece ci sembra, musicalmente valido diventa un’esibizione canora. In ambedue i casi non è questo lo scopo del “Santo, Santo, Santo”. Esso è l’espressione massima della Lode universale a Dio, perciò riguarda tutti: “ Chi prega cantando” - recita un detto - “prega due volte”. Non ha importanza se si ha una bella voce o no, se si è intonati o no; il Signore non guarda alle apparenze, ma guarda il nostro cuore. Il canto del “Sanctus” dovrebbe far tremare i muri della chiesa… CONSACRAZIONE O EPICLESI. Epiclesi da epi - clesis ossia invocazione sopra (il pane e il vino), chiamata alla Divinità. Completato il canto del Sanctus, i fedeli s’inginocchiano e, in assoluto silenzio, con attenzione viva e presente, in atteggiamento dimesso, si predispongono a un totale raccoglimento, mentre sull'Altare del Sacrificio si compie l'ineffabile Mistero della Transustanziazione: il Signore si rende presente sull'Altare in Corpo, Sangue, Anima e Divinità, per mezzo del suo ministro consacrato, per la salvezza delle anime dei fedeli presenti e assenti, vivi e morti. Avviene davanti a noi la conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del Corpo di Cristo, e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del suo Sangue. Questa conversione si attua nella preghiera eucaristica, mediante l'efficacia della parola di Cristo e dell'azione dello Spirito Santo. Tuttavia, le caratteristiche sensibili, le apparenze, del pane e del vino, cioè le «specie eucaristiche», rimangono inalterate; ma non sono più le stesse. L’epiclesi sottolinea con superba precisione l’umiltà del ministero sacerdotale. Talvolta si dice che il sacerdote consacra. A essere onesti, l’affermazione è insostenibile. L’epiclesi rivela in ogni caso, con totale esattezza, ciò che fa il sacerdote: dice l’orazione in virtù della quale la comunità celebrante implora il Padre di inviare il suo Santo Spirito sopra il pane e il vino perché si convertano nel Corpo e nel Sangue di Gesù. Cosicché è il Padre che consacra per mezzo del suo Spirito. Risulta pertanto opportuno che il sacerdote reciti la preghiera, l’invocazione, perché questo così avvenga. L’epiclesi è anche un inno di lode alla Trinità. Il Padre sta al centro di questa esaltazione. Egli inviò lo Spirito Santo sopra la vergine Maria affinché sorgesse in lei il corpo di Gesù: ora invia di nuovo il suo Spirito sopra le offerte della comunità perché sopra di esse discenda il Corpo di Cristo risuscitato. La comunità accoglie questa grazia e dà gloria al Padre, attraverso il Figlio nello Spirito. ANAMMESI cioè il Ricordo dell’istituzione dell’eucaristia fatta da Gesù la vigilia della sua passione e morte, quando prese il pane, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli dicendo: PRENDETE E MANGIATENE TUTTI: QUESTO E’ IL MIO CORPO OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI. Il sacerdote solleva l’ostia grande, ormai consacrata, e la espone all’adorazione della comunità che la adora come presenza reale, effettiva del Corpo di Cristo. Il sacerdote prosegue: “Dopo la cena, allo stesso modo, prese il calice Ti rese grazie con la preghiera di benedizione, lo diede ai suoi discepoli e disse: PRENDETE E BEVETENE TUTTI: QUESTO E’ IL CALICE DEL MIO SANGUE PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA, VERSATO PER VOI E PER TUTTI IN REMISSIONE DEI PECCATI. FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME. Il sacerdote alza il calice, mostrandolo alla visione e all’adorazione di tutti i fedeli che lo glorificano e ringraziano nel loro cuore, lieti di quest’opportunità loro concessa. Mi pare opportuno, al momento dell’elevazione dell’ostia, Corpo glorioso di Cristo risorto, ricordare e pronunciare le parole di Tommaso, l’incredulo, nel cenacolo quando Gesù lo invitò a mettere le sue dita nelle sue ferite dei chiodi: < Mio Signore e mio Dio>. E’ l’incontro ravvicinato con il Mistero! Infatti, il sacerdote lo ricorda dicendo: < Mistero della fede>. E l’assemblea risponde: “Annunciamo la Tua morte, Signore, proclamiamo la Tua risurrezione, nell’attesa della Tua venuta“. Questo momento, quello della ELEVAZIONE, è certamente il momento più alto e più suggestivo di tutta la celebrazione eucaristica. Come dovrebbe comportarsi il fedele? Deve inginocchiarsi o rimanere in piedi (non certamente seduto)? Se si è veramente coscienti alla presenza di chi ci troviamo di fronte, chi siamo chiamati ad adorare, la risposta non può essere che: prostrati in ginocchio. Si deve aggiungere però che un’altra corrente di pensiero sostiene che, essendo redenti da Cristo, ed essendo Cristo Gesù risuscitato, vivo e quindi in piedi, anche il fedele può rimane in piedi a ricordo della sua Risurrezione. Personalmente, ritenendomi peccatore, e sempre oggetto della misericordia di Dio penso che, quando c’è la possibilità, cioè ci sono gli inginocchiatoi disponibili, ci si debba mettere in ginocchio, evitando per quanto possibile l’inginocchiarsi ostentatamente per terra, che, a me pare, talvolta, un’inutile ed inopportuna esibizione. LA PREGHIERA EUCARISTICA continua da parte del sacerdote che, a mani alzate in segno di preghiera, pronuncia le invocazioni per l’assemblea riunita, per la gerarchia ecclesiastica, per il Papa, i vescovi suoi collaboratori, l’ordine sacerdotale, i presbiteri e i diaconi. Invoca l’Altissimo affinché accolga nel suo seno tutti i fedeli defunti che si sono addormentati nella speranza della risurrezione e li unisca ai santi, alla vergine Maria, a San Giuseppe e a tutti i santi a Dio graditi nello scorrere dei secoli, affinché li riunisca tutti in un solo corpo (quello di Gesù Cristo). Alla fine della preghiera il sacerdote alza con una mano la patena (o la pisside) e con l’altra il calice e pronuncia la dossologia: < CON CRISTO, PER CRISTO ED IN CRISTO, A TE, DIO PADRE ONNIPOTENTE, OGNI ONORE E GLORIA PER TUTTI I SECOLI DEI SECOLI>. Al ché l’assemblea si associa con il suo sonoro, convinto AMEN (è così!). Questa formula è esclusiva del sacerdote e non è né bello né opportuno che qualcuno se ne arroghi il diritto di pronunciarle, sia pure facendo eco alle parole del sacerdote. Un tempo si diceva che il fedele assisteva alla Santa Messa, oggi la comunità partecipa attivamente al rito eucaristico, ma ciascuno secondo il suo ruolo. Con questa invocazione di lode a Dio termina la preghiera eucaristica e si entra nell’altro momento della celebrazione che sono i RITI DI COMUNIONE. I riti di comunione hanno inizio con la recita o il canto della preghiera del Signore. 1) II Padre Nostro. La sua proclamazione è introdotta da una formula, quasi un "prologo", pronunciata dal sacerdote, che richiama l'importanza di questa preghiera, invita a proferirla con devozione, ricorda che è stata istituita dal Signore stesso. 2) Dopo il “Padre Nostro” il sacerdote recita l'embolismo, [si chiama embolismo uno sviluppo letterario a partire da un testo; in questo caso a partire da “ liberaci dal male…” ; 3) Subito dopo, il sacerdote invita l’assemblea a scambiarsi un segno di pace in segno di comunione fraterna; 4) Il celebrante inizia l’invocazione cristologia dell'Agnus Dei: "Agnello di Dio, … Questa invocazione ha una forte dimensione eucaristica, perché pronunciata durante i riti della frazione del pane (visibile a tutti); 5) L’immistione (una piccola porzione dell'ostia viene posta dentro calice: le specie eucaristiche, prima separate, sono ora unite, a significare l'integra presenza di Cristo in esse) riprende il cibarsi dell'agnello nella cena pasquale ebraica accostandolo alla vera cena dell'Agnello, la comunione eucaristica; 6) Dopo una breve preghiera privata, l'Ostensione del pane-corpo di Cristo; 7) In atto di umiltà, i fedeli si avviano all'altare in raccoglimento, solitamente cantando, ove ricevono (sulla lingua o sul palmo della mano, per propria scelta) il Corpo di Cristo, cibandosene. IL PADRE NOSTRO. Il celebrante ricorda all’assemblea come il Signore abbia concesso alla comunità il suo Spirito e, con una formula adatta alla circostanza e al momento, invita alla recita della preghiera che Gesù stesso ha insegnato ai suoi discepoli e quindi anche a noi. Non è il caso di esaltare ulteriormente questa preghiera perché tutti la conoscono e sanno quali tesori di amore filiale, siano in essa richiusi. Diciamo solo che si divide in sette petizioni o richieste. Le tre prime sono, per così dire, “celestiali” nel senso che si rivolgono a Dio: al suo nome, al suo Regno, e alla sua volontà. SIA SANTIFICATO IL TUO NOME VENGA IL TUO REGNO SIA FACCIA LA TUA VOLONTA’ COME IN CIELO COSI’ IN TERRA Le quattro petizioni seguenti poiché si riferiscono all’uomo, si possono dire “terrestri”: DACCI OGGI IL NOSTRO PANE QUOTIDIANO RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI COME NOI LI RIMETTIAMO AI NOSTRI DEBITORI NON CI INDURRE IN TENTAZIONE MA LIBERACI DAL MALE Secondo la volontà espressa da Gesù nella “preghiera del Signore”, Dio desidera essere invocato con il tenero nome di “ABBA’, PADRE”. Il Padre Nostro non è la petizione di un qualche servo al suo padrone, ma l’implorazione dei figli al Padre. Nel pronunciare l’invocazione al Padre, si prende coscienza della reale filiazione: solamente i figli possono dire “Padre”. EMBOLISMO. La preghiera del “Padre nostro”, che l‘assemblea pronuncia in piedi, e che non si conclude con l’amen, ma si lascia in sospeso con “liberaci dal male….”, la termina il sacerdote con “ Liberaci, o Signore, da tutti i mali….”. Questa preghiera liturgica intercalata nel canone della messa (detto embolismo) chiede a Dio la liberazione di tutti i mali, di concederci la pace, tenerci lontano dal peccato in attesa della venuta di Gesù Cristo. A questa preghiera l’assemblea risponde con una nuova lode a Dio: < Tuo è il Regno, Tua la Potenza e la Gloria nei Secoli>. Al termine del “Padrenostro”, se il tabernacolo è un po’ distante dall’altare, un sacerdote concelebrante, o un diacono, o un ministro straordinario della comunione va a prelevare, dove è custodita, la pisside dove sono state conservate le particole (le ostie) consacrate e non consumate nelle precedenti celebrazioni. La pisside (è il vaso sacro nel quale è conservata l’eucaristia, è composto di piede, fusto, coppa e coperchio). L’incaricato di portare la Pisside la depone sul corporale (e non sulla tovaglia), compie un atto di adorazione con la genuflessione o con un profondo inchino e si allontana dall’altare. RITO DELLA PACE. Il celebrante invita l’assemblea a scambiarsi un segno di comunione e pace fraterna. E’ uso scambiarsi una frettolosa e distratta stretta di mano; ma è sufficiente? Non sarebbe opportuno metterci un po’ più di calore? Taluni usano il saluto francescano “Pace e Bene”. Mi sembra riduttivo e non adeguato. Gesù agli apostoli dopo la Risurrezione disse: < Pace a voi!>. Avendo ricevuto anche noi lo Spirito di Dio, sarebbe opportuno salutarsi con: “LA PACE SIA CON TE”. E’ vero desiderio di comunicare ai fratelli e sorelle vicini l’augurio più bello di Gesù, dopo la Risurrezione, < Pace a voi>. La pace invocata non è solamente una mancanza di guerra o di conflitto, ma la Pace che proviene da Dio, cioè pace e gioia nello Spirito Santo. Questa pace ci si augura tra fratelli. Basta questo per rimanere nel tema dello Spirito senza scivolare nel bacio santo della pace riservato a celebrazioni in piccolissime comunità omogenee ma dispersive e fonti di disordine in una celebrazione parrocchiale. Il saluto dovrebbe riservarsi ai vicini di banco, senza abbandonare il proprio posto volendo salutare tutti. AGNELLO di DIO. Il sacerdote invita alla recita dell’invocazione all’Agnello di Dio sacrificato, cioè a Gesù Cristo stesso, unico ed eterno agnello immolato una volta per tutte per i nostri peccati. Si ricorda qui come Gesù si sia offerto volontariamente come vittima sacrificale caricandosi (dal latino tollere che non significa solo “togliere” ma anche farsi carico, addossarsi, portare su di se) dei nostri peccati. Sono delle antifone queste che per averle sentite decine di volte abbiamo smesso di penetrarne l’intrinseco e profondo significato. Il Signore Gesù ha portato sulla Croce i nostri peccati lasciandosi inchiodare al legno per essi e con essi. Si è fatto Agnello sacrificale, vittima innocente umiliata e inchiodata perché noi non fossimo più umiliati dal peccato e da schiavi che eravamo diventassimo liberi per i suoi meriti. FRAZIONE DEL PANE. Contemporaneamente, il sacerdote prende il pane (l’ostia grande) e tenendola sopra il calice lo spezza. Lo tiene sopra il calice col vino affinché se una pur piccola particella dovesse schizzare possa cadere dentro il calice e non fuori. Infatti, anche l’infinitesima parte, la più piccola delle briciole, contiene tutto intero il Corpo di Cristo e disperdendolo si commetterebbe sacrilegio. Il rito della frazione del pane rinnova il gesto di Cristo nell’ultima cena. In ricordo di questo, durante l’era apostolica la celebrazione eucaristica era chiamata semplicemente “ la frazione del pane”. Durante la “frazione del pane” il sacerdote lascia cadere una briciola del pane nel calice a mischiarsi col vino. Quest’atto compiuto di fronte all’assemblea e da tutti ben visibile, si chiama “Immistione”: le specie eucaristiche, prima separate, sono ora unite, a significare l'integra presenza di Cristo in esse e ricorda il cibarsi dell’agnello nella cena pasquale ebraica accostandolo alla vera cena dell’Agnello, la comunione eucaristica. Mentre compie la “Frazione del Pane” e la “Immistione”, il sacerdote recita a voce bassa una preghiera rivolta a Gesù Cristo affinché lo liberi da ogni colpa. OSTENSIONE. Ora il celebrante riunisce il pane spezzato, mancante della frazione immessa nel calice, e alzandolo in modo che sia da tutti visibile pronuncia: “ Beati gli invitati alla cena del Signore. Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”. Chiama “ beati” coloro che si sentono invitati a partecipare alla cena del Signore, cioè a nutrirsi del suo Santo Corpo. Nessuno può dichiararsi veramente degno e quindi beato. Il centurione romano, pagano, che chiedeva la guarigione del suo servo, a Gesù che si accingeva a seguirlo per entrare nella sua casa disse: . Noi oggi diciamo: < O Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa, ma di’ soltanto una parola ed io sarò salvato>. Con una sola Parola Tu ci hai creati, o Signore, e con una sola Parola Tu ci puoi salvare. Il sacerdote si comunica con le due specie chiedendo al Signore che il Corpo e il Sangue di Cristo lo custodiscano per la vita eterna. COMUNIONE. Comunione (cioè unione con… ) con Cristo. Unendosi a Lui colui che riceve l’ostia, diventa parente, consanguineo di Cristo Gesù. Finché quel pane consacrato rimane pane, il fedele è unito al Figlio di Dio, a Dio stesso: è divenuto tabernacolo, arca dove è riposto, custodito il Santo dei Santi, il Re dei Re. Pur rimanendo peccatore, fragile e insicuro il comunicando è invaso completamente dallo Spirito di Dio e non serve quindi segnarsi o inchinarsi o genuflettersi: tu ospiti Cristo! Se fossimo veramente coscienti del dono ricevuto e Chi portiamo dentro di noi, ci inchineremmo l’uno di fronte all’altro. Riflettere su questo dono, assolutamente gratuito e immeritato, c’è da sentir tremare vene e polsi. Si è partecipi, si è dentro il Mistero, si è parte di quel Mistero che non è altro che quella realtà sovrannaturale che la nostra razionalità non riesce a penetrare. Solo la fede ne è capace. E’ un dono gratuito, abbiamo detto. Ora si può andare a ricevere un dono meraviglioso come questo con animo triste, immusoniti e accorati come a un funerale? Il fedele, cosciente di Colui che sta per ricevere, deve avere l’animo lieto, deve far trasparire la gioia del dono. Ma come accogliere Gesù? Cirillo di Gerusalemme (+387) suggeriva ai neofiti: < Quando ti accosti (al Sacramento eucaristico) non ti avvicinare con la mano aperta, né con le dita spalancate ma fai con la tua sinistra un trono per la destra che va a ricevere il Re. Accogli il Corpo di Cristo nel cavo della tua mano e rispondi “Amèn “>. E’ consuetudine accompagnare la processione eucaristica con un canto, ma sarebbe opportuno che non andasse oltre la metà del tempo dedicato alla distribuzione dell’Eucaristia per consentire il colloquio intimo con Colui che ci ha visitato senza distrarlo col canto. Per molti è questo il momento più bello, più intimo in cui colloquiare con nostro Signore Gesù Cristo. RITI CONCLUSIVI. Finita la distribuzione dell’Eucaristia, il sacerdote purifica la patena e il calice. Nella patena possono esserci delle minuscole briciole di pane consacrato, pertanto con il “purificatoio” (piccolo fazzoletto di lino) le fa cadere dentro il calice. Aggiunge dell’acqua dall’apposita ampollina e il celebrante la beve fino all’ultima goccia. Poi, sempre col purificatoio, deterge accuratamente e ripetutamente l’interno del calice al fine di far sparire ogni traccia di liquido. Ripiega il corporale e lo ripone insieme col purificatoio e il palla sopra il calice. Tutta l’assemblea a questo punto è seduta in raccoglimento ed anche il sacerdote si siede per raccogliersi anche lui in preghiera personale di ringraziamento. ORAZIONE dopo la comunione. Accostatosi all’altare, il celebrante legge l’Orazione dopo la Comunione. L’assemblea (in piedi) risponde Amen. Se non ci sono avvisi particolari che riguardano la comunità, il celebrante impartisce la Benedizione nel Nome delle tre persone della Trinità: del PADRE, del FIGLIO e dello SPIRITO SANTO. BENEDIZIONE. Purtroppo si deve registrare un sempre minore interesse per questa forma di dono. Qualcuno alla fine della Orazione dopo la Comunione abbandona chetamene la chiesa, quando non lo fa subito dopo la comunione. Eppure questo dono ha radici ebraiche (berakah = benedizione) antichissime che si perdono nella notte dei tempi. Ma anche più recentemente, nel N.T. la pratica della benedizione ha radici ben fondate. Prima di inviare i suoi discepoli nel mondo a testimoniare la sua avvenuta risurrezione davanti a tutte le nazioni, Cristo Gesù “alzò le mani e li benedisse". E mentre li benediceva, si separò da loro e salì al cielo” (Lc. 24,50-51). Prima di inviare i fedeli nel mondo ad annunziare ai propri fratelli la resurrezione di Cristo, il sacerdote, allo stesso modo, alza le mani sopra di loro, li segna col segno della croce e invoca sopra di loro la benedizione del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. I fedeli si sono riuniti nella chiesa, santuario di pietra: adesso vanno a espandersi nel santuario che è l’universo intero. Si sono riuniti per fare una comunità di fratelli, vanno ora a portare ai propri fratelli, nel mondo, la croce di luce con la quale essi sono stati segnati. Avevano formato una comunità di lode a Dio, adesso vanno a far risuonare questa lode sopra tutta la terra. Questa benedizione finale, nel momento nel quale il presidente abbandona la sua assemblea, manifesta bene il vincolo che lo unisce alla sua comunità. Il sacerdote è stato ordinato non per dominare sui suoi fratelli, ma per portare loro la benedizione di Dio segnandoli con la croce di Cristo. A dir la verità, non è nemmeno lui chi li benedice, ma piuttosto pronuncia l’orazione nella quale supplica Dio che li benedica: “ Che Dio Onnipotente vi benedica…” . La Benedizione è una sola, è un dono gratuito che Dio fa alle sue creature; essa è in rapporto con la vita e il suo mistero ed un dono espresso mediante la Parola e il suo mistero. La benedizione è sia parola che dono, sia dizione che bene (latino bene – dictio) perché il bene che essa apporta non è un oggetto preciso, un dono definito, perché non appartiene alla sfera dell’avere ma a quello dell’essere, perché non deriva dall’azione dell’uomo, ma dalla creazione di Dio. Forse apprezziamo maggiormente la Benedizione se pensiamo al suo contrario, cioè alla maledizione. E’ strano come si sia più sensibili alla maledizione – potere negativo – che non alla benedizione - potere assolutamente positivo. CONGEDO E SCIOGLIMENTO DELLA ASSEMBLEA. Il sacerdote licenzia l’assemblea invitandola a non disperdere quanto hanno ricevuto di grazie e di farne tesoro della loro vita glorificando Dio con il loro comportamento.

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