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Mi sono accostato con passione alla Bibbia dopo un viaggio in Israele fatto con la mia famiglia nel 1978

sabato 31 dicembre 2011

I SIMBOLI DELLA MESSA Pillole di liturgia della messa Molti cristiani, io compreso, se ci dovessero interrogare sui significati, sui simboli, sugli atti che si svolgono davanti a noi ogni domenica, sarebbero piuttosto imbarazzati a rispondere. Le parole “Liturgia” o “Messa” o altro ci sfuggono. Sappiamo certamente cosa sono ma cosa significhino, quale sia il loro significato storico o anche pratico, beh, questo lo ignoriamo. Può darsi. Ma, io credo che, conoscendone i significati, possiamo partecipare più coscientemente e più attivamente al rito domenicale della messa. Quello che sto proponendo non è un trattato di liturgia cattolica, ma delle semplici annotazioni, dei modesti riferimenti (che ho chiamato “pillole” di liturgia) a quanto si svolge durante la celebrazione eucaristica domenicale sotto i nostri occhi. Conoscerle aiuta a essere più attenti e partecipativi alla “nostra” messa della domenica. Dico subito che non è tutta farina del mio sacco, ma ho cercato di sintetizzare e semplificare un piccolo libro di liturgia scritto diversi anni fa, subito dopo il Concilio Vaticano II, e da me utilizzato per dipanare dubbi e incomprensioni che mi venivano durante la celebrazione della messa. E’ un libricino molto più esteso ed io ho solo cercato di sintetizzarlo in un italiano comprensibile. Conservando queste semplici annotazioni, si avrà un piccolo manuale di consultazione e lo stimolo per approfondire ulteriormente le nostre curiosità. Ovviamente sono a completa disposizione per chiarire ciò che non sembra chiaro, nei limiti delle mie capacità e competenze. LITURGIA. Liturgia deriva dal greco Leiton (popolare, pubblico) e érgon (opera) cioè un’opera, un’azione, in genere di natura religiosa, sacra che si svolge in pubblico, di fronte ad un’assemblea opportunamente convocata. MESSA. La parola “Messa” ha un’origine antichissima e si riferisce alla formula “Ite, missa est” che doveva significare “[l’eucaristia ] è stata mandata [ agli assenti e alle chiese vicine]“, come si usava al tempo delle persecuzioni. Più tardi queste due consuetudini della chiesa primitiva sparirono, e l’espressione, non più intesa letteralmente, fu interpretata secondo la funzione semantica che aveva preso, cioè come “congedo” e “compimento della celebrazione del rito divino”. Insomma nella parola “missa” (o messa) si nasconde il ricordo augusto di quella solidarietà cristiana che ebbe nel sacrificio eucaristico il suo “sacramento di unità”. Il rinnovo della Pasqua di Cristo, che noi oggi chiamiamo “messa”, dai primi cristiani era chiamato “Coena Domini” (la Cena del Signore) ricordando l’ultima cena del Signore Gesù in cui, benedicendo il pane e il vino, invitò a perpetuarne la memoria in suo ricordo. La nostra è un’assemblea liturgica il cui presidente è Gesù stesso che presiede in modo invisibile ogni celebrazione eucaristica.(Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica.) Noi adesso ci accingiamo non a fare memoria ma a rivivere il sacrificio di Gesù, presente sotto le specie del pane e del vino. Il primo gesto del sacerdote. Il primo atto del sacerdote (o dei sacerdoti ) celebrante è la venerazione dell’altare: si inchina davanti e lo bacia. Baciare l’altare è un gesto di venerazione e di affettuoso rispetto ed esprime l’attitudine di adorazione verso Cristo. Nell’antichità si portava la mano alla bocca per lanciare un bacio a qualcuno o si portava alla bocca il bordo della veste di colui che si voleva onorare. Dal portare alla bocca (“a ora” cioè “alla bocca”) verrebbe la parola “adorare”, ma è un’etimologia poco sostenibile. L’altare non è semplicemente “ il centro dell’azione di grazia”, la tavola sulla quale si celebra “ la cena del Signore”, ma è il segno tangibile di Gesù Cristo in mezzo alla sua comunità. L’altare è CRISTO. Il sacerdote si accinge a dirigere la celebrazione, ma, primariamente, vuole rendere chiaro di fronte a tutta la comunità riunita, il suo amore e la sua adorazione nei confronti di Gesù Cristo, il Signore che ha sedotto il suo cuore. Non è più che un servitore del Signore in mezzo a molti altri: assume semplicemente un ministero particolare, quello della presidenza dell’assemblea. A questo punto c’è da chiedersi: < Chi celebra la messa?> Una volta si diceva che era il sacerdote e la comunità assiste (manco fosse uno spettacolo!). In realtà bisogna rispondere: la comunità col suo sacerdote, celebrando ciascuno per quanto di sua competenza. Ancora: Una volta si diceva che era il sacerdote, ma in realtà è Cristo! Saluto del sacerdote. Dopo aver invocato la Santa Trinità col segno della Croce, il sacerdote saluta l’assemblea con la formula: < Il Signore sia con voi>. Oppure con una formula trinitaria: (2Cor.13,13) < La grazia di Nostro Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi >. Oppure l’altra ugualmente cristologia: < La grazia e la pace da parte di Dio, nostro Padre e del Signore Gesù Cristo, sia con tutti voi >. All’inizio del suo Vangelo, Matteo aveva sottolineato il mistero di Cristo: < E gli metteranno il nome di Emmanuele, > che significa “ Dio con noi” (1,23) e alla fine di esso < Io sarò con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo>(Mt 28, 20). Tutta la vita di Gesù e tutto il messaggio del suo Evangelo si riassumono in questa doppia affermazione della presenza costane e continua dell’Emmanuele. Queste due affermazioni sono come due pilastri su cui posa l’arca che permette alla comunità di passare dalla Nascita di Gesù fino alla sua Risurrezione. La liturgia afferma che tutta la celebrazione eucaristica si fonda sopra l’Emmanuele e la comunità, trasfigurata in corpo di Cristo, si trasforma a sua volta in “ Emmanuele “ per il mondo. Atto penitenziale. Tutta la Chiesa, perfino nei suoi membri più peccatori, è Santa, “ senza macchia né ruga” (Ef.5,27). E’ santa con la medesima santità di Gesù. La sua santità consiste nel riconoscersi peccatrice, al fine di poter ricevere il perdono di Gesù. Pertanto, risulta del tutto normale che la celebrazione cristiana implichi il riconoscimento e il perdono dei peccati. Quindi il sacerdote, al fine di partecipare degnamente ai Santi Misteri, invita l’assemblea tutta, dopo essersi riconosciuta peccatrice, a chiedere perdono. Esistono diverse formule, la più antica delle quali è, forse, quella triplice invocazione trinitaria del “Kirie, eleison”. E’ in lingua greca, la lingua in cui furono scritti tutti i libri del Nuovo Testamento e la lingua nella quale veniva, all’inizio del Cristianesimo, celebrata la “Cena del Signore . “Corrisponde al “Signore, pietà”, ma con un significato aggiunto, che è quello di avvicinarci e tener presenti i fratelli cristiani di rito orientale che ancora usano questa antichissima e gloriosa formula. Anche se sono da noi separati, sono sempre e comunque i nostri fratelli in Cristo. Comunque, quale che sia la lingua usata, greco o latino o italiano, il senso non cambia: ci riteniamo peccatori e chiediamo il perdono del Signore Gesù Cristo. Gloria a Dio nell’alto dei cieli. Il “Gloria a Dio” è uno degli inni più antichi che pietà cristiana abbia mai composto in onore di nostro Signore Gesù Cristo. La liturgia orientale usa chiamarla “ la Grande Dossologia” (dossologia = lode) in opposizione alla piccola dossologia del “Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo….”. Secondo Sant’Atanasio ( morto nel 373), quest’inno figurava anticamente nelle lodi dell’orazione del mattino. All’inizio riproduce l’inno degli angeli in occasione della Nascita di Gesù in Betlemme ed è forse per questo che fu incluso nella liturgia del Natale intorno al VI secolo. All’inizio la sua esecuzione era riservata alla messa del vescovo, ma, intorno all’VIII secolo, la sua diffusione era totale. E’ uno degli inni più belli della tradizione cristiana. La sua bellezza non è tanto nella sua stesura letteraria (per quanto pare che nessuna traduzione in una delle lingue moderne possa restituire il brillìo della prosa ritmica greca) quanto nella sua lode a Dio. Il Padre, fonte di ogni benedizione, ci ha predestinati, “prima della creazione del mondo”, a essere, alla presenza sua nell’eternità del suo amore, viventi “lodi della sua Gloria e della sua Carità” (Ef 1,3-6). Così, all’inizio della messa, cantando Gloria a Dio ci uniamo agli angeli per proclamare questa gloria: < Noi Ti lodiamo, Ti benediciamo, Ti adoriamo, Ti glorifichiamo, Ti rendiamo grazie per la Tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente>. Come un mazzo di fiori, dai colori più diversi e abbaglianti, il “Gloria” riunisce in un fascio di lodi le differenti forme dell’umana orazione. E’ a questo punto, per la prima volta dall’inizio della messa, che la comunità entra pienamente nella celebrazione sacerdotale per la quale è stata convocata. Il “Gloria “ è un inno e come tale andrebbe cantato. Non cantarlo sarebbe come se recitassimo e non cantassimo l’inno nazionale. COLLETTA. I riti di apertura si concludono con l’orazione chiamata “Colletta” che significa raccolta. Fin dai primi tempi i cristiani, insieme con il pane e con il vino per l’Eucaristia, presentavano i loro doni perché fossero condivisi con coloro che si trovavano in necessità. Questa consuetudine della “Colletta”, sempre attuale, trae ispirazione dall’esempio di Cristo che, da ricco che era, si è fatto povero per arricchire noi; così il Catechismo della Chiesa Cattolica. Presumibilmente la raccolta riguardava beni d’immediata necessità, quali alimenti, di cui i fratelli più poveri avevano bisogno. Quest’uso è ormai scomparso, ma ciò non toglie che i partecipanti all’assemblea non possano mettere insieme le loro personali richieste da presentare come popolo di Dio. Queste orazioni della colletta nate in latino manifestavano tutta l’impronta gloriosa della lingua: sobrietà, dignità, gravità che nessuna traduzione nelle lingue moderne ha saputo forse riprodurre. Le orazioni usate oggi dalla liturgia rispecchiano i consigli della Costituzione conciliare “Sacrosantum Concilium” sulla Sacra liturgia: semplicità, trasparenza, brevità, “adatte alla comprensione dei fedeli” e senza necessità di spiegazioni. ALTARE E AMBONE. L’altare è la mensa dove si consuma il sacrificio eucaristico. Abbiamo visto che esso si identifica con Cristo stesso, presente e presidente dell’assemblea da Lui convocata. Sopra l’altare niente vi deve essere se non ciò che è indispensabile per il Sacrificio Eucaristico. Pertanto doni, fiori, offerte tradizionali varie andrebbero messe ai piedi dell’altare, lasciando l’altare libero da oggetti estranei al rito. L’ambone è il trono su cui viene intronizzata la Parola di Dio. Non deve essere un semplice leggio, per di più mobile ma stabile, di pietra, architettonicamente il più possibile simile all’altare. Detto chiaramente: la teologia delle due tavole, quella della Parola e quella dell’Eucaristia, non deve esprimersi soltanto sul piano intellettuale ma anche sul piano architettonico. Altare e ambone architettonicamente devono elevarsi sul piano della chiesa non solo al fine di essere visti da tutta l’assemblea, ma anche a esprimere l’elevatezza dei riti in esso compiuti. In certe celebrazioni solenni l’Evangeliario o Lezionario è processionalmente messo sul trono a significare e sottolineare il rispetto che si deve avere per La Parola. Essendo quindi l’ambone, il posto esclusivo della Parola, da esso non può venire nessuna parola umana. Pertanto essi si dovrebbero usare solo per le letture liturgiche, il salmo di risposta, l’Alleluia, la lettura del brano evangelico. Si può aggiungere l’omelia del sacerdote (che è comunque assimilabile, per certi versi, a Parola di Dio) e la preghiera universale. Ogni altra utilizzazione, come annunci vari, direzione di canti, commenti liturgici o altro è quanto meno inopportuna. Liturgia della Parola. Terminati, come abbiamo detto, i riti di apertura la celebrazione prosegue con le due parti principali: la liturgia della Parola e quella del Sacrificio eucaristico. Sono due parti inscindibili l’una dall’altra: senza la Parola il sacrificio eucaristico perde di significato, come pure la Parola, priva del Sacrificio Eucaristico, perde di vigore. Gesù non lo si può riconoscere come lo conoscevano i suoi discepoli ed apostoli << sicché viene scoperto solo nell'ambito della fede; interpretando le Scritture egli infiamma il cuore dei due pellegrini ( di Emmaus ) e spezzando il pane apre loro gli occhi. Qui abbiamo una chiara allusione ai due elementi basilari della liturgia cristiana primitiva, che si compone appunto di liturgia della parola (lettura e spiegazione della S. Scrittura) e di frazione eucaristica del pane. In tal modo, l'evangelista ( Luca) lascia capire che l'incontro col risorto viene a collocarsi su un piano completamente nuovo; utilizzando le 'cifre' dei dati liturgici, egli tenta di descrivere l'indescrivibile. Ci dà cosí una teologia della risurrezione e al contempo una teologia della liturgia: il risorto s'incontra nella Parola e nel sacramento; l'azione liturgica è la maniera in cui egli si rende a noi percettibile, riconoscibile come il Vivente. E argomentando in modo inverso: la liturgia si fonda sul mistero pasquale; essa va intesa come un avvento del Signore fra noi, che lo porta a farsi nostro compagno di viaggio, ad infiammarci gli ottusi cuori e ad aprirci gli occhi serrati. >> (J. Ratzingher). Un tempo (prima della riforma liturgica del 1969) si diceva che uno aveva adempiuto il precetto della messa festiva purché assistesse al sacrificio eucaristico, quindi anche dopo l’omelia. Oggi, per fortuna, non è più così. La Parola di Dio e il Sacrificio Eucaristico hanno uguale importanza ed è necessario essere presenti a tutta la messa per soddisfare il precetto festivo. Umanamente parlando: se fossimo convocati da un’autorità massima, supponiamo il Presidente della Repubblica, non credo che nessuno si presenterebbe in ritardo all’appuntamento. Oggi siamo convocati da Gesù, da Dio stesso in persona: <LE LETTURE. Le “letture” sono articolate in forma di dialogo tra la Parola che procede da Dio e la parola che procede dalla comunità. Dio parla attraverso il brano dell’Antico Testamento. La comunità risponde con il: Salmo (cantato o recitato) Dio parla attraverso il brano delle Epistole del Nuovo Testamento. La comunità risponde con un canto di lode: Alleluia. Dio parla attraverso il brano del Vangelo e la sua spiegazione: l’Omelia. La comunità risponde col Credo e prega: Preghiera universale. La lettura del brano dell’Antico Testamento ci riporta alla storia del popolo ebreo e della sua fede in quell’unico Dio che l’ha scelto fra tanti altri popoli, che l’ha condotto in quella terra che gli aveva promesso, che gli ha parlato attraverso i suoi profeti, che gli ha promesso la salvezza e che non l’ha mai rinnegato non ostante i suoi innumerevoli peccati e tradimenti manifestandogli continuamente il suo amore immutabile. IL SALMO. Il popolo alle parole del brano che gli ricorda quanto e quando il Signore ha fatto per lui risponde con parola di ringraziamento, manifestando l’amore che nutre per il proprio Creatore e invocandone la misericordia e il perdono. I Salmi sono composizioni poetiche che erano cantate dal popolo ebreo durante le solenni celebrazioni nel Tempio di Gerusalemme. Certi sono antichissimi, risalenti ai tempi di re Davide che, si dice, ne abbia composto una buona parte e che datano a circa il 1000 a.C., a ben tremila anni prima di oggi! Per tremila anni il popolo ebraico prima e poi popolo ebraico e popolo cristiano hanno invocato la misericordia di Dio, hanno manifestato la propria fede, hanno espresso le loro richieste, i propri bisogni e preghiere. E’ singolare che popolo ebreo e popolo cristiano si rivolgano all’unico Dio con le stesse parole, con gli stessi sentimenti. Con la lettura o il canto del salmo, il popolo risponde al Signore che ci ha parlato attraverso le parole del brano dell’Antico Testamento. SECONDA LETTURA. Il Signore parla ancora attraverso la lettura di brani scelti dalle lettere in genere di S. Paolo ma anche di S. Pietro, S. Giacomo e S. Giovanni. Sono questi delle interpretazioni, delle applicazioni pratiche di vita cristiana, sono degli ammaestramenti di come debba comportarsi il cristiano in ogni frangente della vita. S. Paolo ci invita a riflettere sui contenuti teologici della vita cristiana, il senso intrinseco della vita in Cristo. Questo gigante della teologia era prima irriducibile avversario e feroce oppositore dei seguaci di Gesù di Nazareth in nome della tradizione giudaica per poi, dopo un drammatico incontro con Gesù sulla via di Damasco, diventare l’elaboratore della teologia cristiana coniugando cristianesimo, cultura greca e Legge di Mosè. S. Pietro e S. Giacomo danno consigli, in genere, su come vivere da cristiani, mentre S. Giovanni, specialmente nella prima delle sue lettere, canta l’Amore di Dio per le sue creature (“Dio è Amore”) e l’amore del cristiano per Dio. ALLELUIA. Alle Parole di Dio della prima e della seconda lettura l’assemblea, mettendosi in piedi, risponde innalzando un canto di lode e di benedizione con il canto del “Alleluia”. Alleluia è l’adattamento alle lingue occidentali dell’ebraico “Hallelu- Jah” cioè “lodate- Jah(veh)”. Ovviamente questa lode deve essere fatta con animo lieto, con gioia. (Non si può fare un complimento a una persona con animo triste, ma almeno col sorriso sulle labbra). Anche l’”Alleluia”, come il “Gloria”, dovrebbe essere di rigore cantato, come lo s’incontra nella liturgia celeste dell’Apocalisse (19,1.3.4.6) quando gli angeli cantano a gran voce le lodi di Dio. E’ la seconda volta che l’assemblea, nella celebrazione eucaristica, si unisce al coro delle miriadi di angeli che certamente circondano anche la più piccola e umile assemblea celebrativa, gli fanno corona, lo avvolgono quasi a proteggerla dalle insidie del maligno, unificando la celebrazione terrena e quella eterna e ininterrotta che si svolge al cospetto dell’Altissimo. LETTURA DELL’EVANGELO. La proclamazione del Vangelo è considerata l’apice della liturgia della Parola. Non che le letture del Nuovo e dell’Antico Testamento siano meno importanti (Gli scritti di Mosè - diceva S. Ireneo – sono le Parole di Cristo), ma perché questa parte della liturgia riporta le autentiche parole di Cristo, anche se filtrate dalle parole umane dello scrittore. L’evangelista è spesso testimone oculare dei fatti narrati e delle parole riportate come nel caso di Marco, Matteo e Giovanni oppure i fatti furono da lui riportati sulla testimonianza degli Apostoli o di persone presenti agli avvenimenti narrati e degni di fede sulla loro veridicità (Luca). Nella liturgia ebraica i testi della Sacra Scrittura sono letti per intero, o quasi, nell’arco di tre anni. Similmente nella liturgia cattolica si leggono i Vangeli sinottici interamente nell’arco dei tre anni del ciclo liturgico (Anno A; Anno B; Anno C). I Vangeli di Matteo, Marco e Luca si dicono “sinottici”, cioè sovrapponibili, perché, pressapoco, raccontano gli stessi avvenimenti, mentre i brani del Vangelo di Giovanni la liturgia li propone nei periodi di Avvento e Quaresima. Nell’anno “A” si legge il Vangelo di S. Matteo, nell’”anno “B” si legge il vangelo di S. Marco, mentre nell’anno “C” si legge il Vangelo di S. Luca, mentre i brani del Vangelo di S. Giovanni la liturgia li propone nei periodi liturgici così detti “forti”". Alla lettura dell’Evangelo fa seguito la: OMELIA. La diffusione delle “Bibbie” tra il popolo cristiano ha portato la nostra epoca a un livello mai raggiunto di conoscenza, anche se talvolta superficiale, della Parola di Dio. Senza dubbio però, per l’immensa maggioranza dei fedeli, di fatto, le letture della liturgia eucaristica, rappresentano la sua unica Bibbia, l’unico contatto con la Parola di Dio scritta e l’omelia, la spiegazione che ne fa il sacerdote alla fine, rappresenta l’unica attualizzazione e applicazione pratica di essa. A questo c’è da aggiungere che, a causa del minimalismo domenicale (l’andare a messa solo una volta la settimana), i fedeli (e stiamo parlando solo dei praticanti) entrano in contatto con la Parola di Dio solamente una volta a settimana. Tutto questo per evidenziare l’importanza dell’omelia che il sacerdote, nelle celebrazioni domenicali, ha l’obbligo di non omettere se non per gravi motivi. Essa è la spiegazione e attualizzazione della Parola di Dio e, pur essendo parola umana, per l’argomento che tratta, è assimilata alla Parola di Dio. Il sacerdote spiega quello che è stato letto, rendendolo comprensibile, adattandolo il più possibile ai membri dell’assemblea liturgica. Così se è una messa in cui prevale la presenza dei fanciulli, cercherà di adattare la spiegazione in modo che questi possano capire e renderla propria. All’obbligo del sacerdote si contrappone il dovere del fedele di ascoltare la Parola di Dio: “Parla, Signore, che il tuo servo ti ascolta”(1Sam.3,10). Questo non impedisce, anzi sarebbe auspicabile che ciascuno, in altra sede e in altro momento, meditasse sulla Parola ascoltata e ne facesse un’attualizzazione personale legandola alla sua vita e ai suoi problemi particolari. Il Signore parla a tutti. A tutti quelli che lo vogliono ascoltare e che lo invocano con animo puro e non settario, il Signore manda lo Spirito Santo affinché quella Parola diventi comprensibile. CREDO. Nella professione di fede, il popolo manifesta il suo consenso e risponde alla Parola che ha ascoltato nelle letture e nell’omelia e ricorda a se stesso e agli altri i fondamenti della fede esprimendoli con convinzione e perfetta adesione, prima di cominciare a celebrare l’eucaristia. Nella sensibilità popolare, il Credo, soprattutto se è cantato in latino nelle celebrazioni solenni, ha un grande valore emozionale e simbolico: è l’affermazione dell’unicità della fede non solo attraverso le diverse comunità ma anche attraverso i secoli. Ci sono due forme di Credo: quello così detto apostolico che si recita specialmente in Quaresima e in Tempo di Pasqua, e quello così detto Niceno – Costantinopolitano che aggiunge al simbolo degli Apostoli le affermazioni del Concilio di Nicea (325) e quello di Costantinopoli (381). L’inclusione nel Credo delle formule del concilio di Nicea – Costantinopoli servì per chiudere il cammino agli errori cristologici, cioè, alle affermazioni su Gesù Cristo in cui non si riconoscevano le due nature: divina e umana, vero Dio e vero uomo. Nelle celebrazioni feriali, il Credo è spesso omesso senza che l’equilibrio della celebrazione abbia ad essere compromesso. PREGHIERA UNIVERSALE. Essa trae origine presumibilmente dalla liturgia ebraica e in particolare da quella delle diciotto benedizioni con le quali nel Tempio di Gerusalemme si accompagnavano i canti dei salmi e le preghiere tratte direttamente dalla Bibbia come, per esempio, lo “She’ma, Israel…“ (Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio…). Con la preghiera universale, il Vaticano II ha restituito all’assemblea liturgica, per quanto piccola essa possa essere, la sua funzione sacerdotale che le era propria all’inizio del Cristianesimo. Il popolo, fortificato dalla Parola, supplica con la preghiera universale l’intercessione del Padre celeste per le necessità della Chiesa e per la salvezza del mondo intero. Questa preghiera è detta universale non tanto e solo perché si faccia carico di tutte le intenzioni di tutti i membri della comunità celebrante quanto perché, in primo luogo, tutti i membri si facciano carico delle necessità di tutti gli uomini; sì, anche dei non credenti. Non si limita pertanto a presentare davanti a Dio le piaghe e i difetti di tutti i suoi membri: è la preghiera cattolica, cioè, universale di questo popolo sacerdotale in favore di tutto l’universo. Tra sé e le nazioni della terra, Dio ha collocato le comunità cristiane, per piccole che siano. Tra sé e le pene degli uomini, Dio ha collocato l’intercessione della comunità, anche la più piccola. La preghiera universale è il mistero d’amore che lega la nostra comunità all’universo intero. Nelle piccole comunità celebranti sono ben accolte le intenzioni personali che si uniscono a quelle comunitarie per essere presentate ai piedi del trono del Signore. Nelle comunità estese, come quella parrocchiale, le preghiere e le intenzioni personali sarebbero fonte di disturbo e di disordine. Con la preghiera universale si conclude la liturgia della Parola e ha inizio la liturgia eucaristica. LITURGIA EUCARISTICA. Durante la celebrazione della cena, Gesù prese pane e vino, pronunciò la preghiera di ringraziamento e distribuì il pane e il vino ai suoi apostoli. La liturgia eucaristica segue il ritmo della cena di Gesù. Pertanto nella liturgia eucaristica si possono distinguere tre momenti susseguenti l’uno all’altro e indivisibili. 1°- Nella presentazione del pane e del vino con l’acqua il sacerdote offre gli elementi che Gesù Cristo stesso prese nelle sue mani. 2°- Nella preghiera eucaristica diamo grazie a Dio per i doni che gli stiamo offrendo e lo preghiamo che, per la nostra salvezza, il suo Spirito li trasformi nel Corpo e nel Sangue di Gesù Cristo Nostro Signore. 3°- Mediante la comunione, i fedeli ricevono il Corpo (e il Sangue) del Signore nel medesimo modo con cui lo ricevettero gli apostoli. Finita la preghiera universale processionalmente, nelle messe solenni, sono portati all’altare i doni. Dice il Signore (Es.23,15.19): <>. Anticamente, chi ne aveva la possibilità, portava all’altare, oltre gli elementi costitutivi dell’Eucaristia, anche olio per le lampade e doni, in genere alimenti, per i più poveri. Sebbene non siano stati presi dalle proprie case, questo rito dell’offerta dei doni conserva il suo valore e il suo significato spirituale perché si riallaccia a una tradizione antichissima risalente ai primi secoli. Col tempo il dono in prodotti della terra o indumenti, per ragioni di praticità, è stato sostituito dalla questua in denaro per le necessità della Chiesa. Anche quest’offerta è deposta ai piedi dell’altare come offerta personale di ciascuno. PREPARAZIONE DELL’ALTARE. Sull’altare, o ai lati, vi sono almeno due candele accese, esse esprimono onore e rispetto a Gesù e sono il suo stesso simbolo in quanto LUI è la vera luce del mondo, e possono significare anche il simbolo ardente della fede viva della comunità. C’è il messale che è il grosso libro dove sono contenute le preghiere assegnate per ciascun giorno dell’anno secondo le varie feste che si celebrano; il crocefisso a ricordo del sacrificio della sua crocifissione; un vaso di fiori ad adornare la mensa in segno di gioia e di festa che il Sacrificio della Messa rivolge agli uomini; il calice che è la coppa di metallo nella quale è offerto, consacrato e ricevuto il vino per l’eucaristia. Il calice è benedetto dal vescovo o anche da un sacerdote con un rito particolare (al momento è ancora vuoto); la patena (è il piattello dorato o la coppetta nella quale è deposto il pane per l’eucaristia); il corporale (cioè il quadrato di lino bianco inamidato che si stende al centro dell’altare prima di deporvi il calice, la patena e la pisside); il palla (dal latino pallium “piccolo drappo”), un quadretto di lino inamidato, riduzione del corporale, che si può usare per coprire il calice a protezione del vino durante la celebrazione della messa; il purificatoio che è un piccolo fazzoletto di lino che si usa per asciugare il calice, la purificazione, al termine della messa; le ampolline cioè dei vasetti di vetro, o di altro materiale, nei quali si mettono il vino e l’acqua per l’eucaristia; un piccolo bacile per raccogliere l’acqua quando il sacerdote si laverà le mani; un piccolo panno chiamato “manutergio” o asciugatoio, per asciugarsi le mani dopo le abluzioni. Ora tutto è pronto per iniziare la liturgia eucaristica. Il sacerdote distende sull’altare il corporale come fosse il lenzuolo (la sindone) che accolse il corpo di Nostro Signore. Su di esso depone il pane e il vino da consacrare. Questi sono ancora solamente pane e vino. LA PRESENTAZIONE DEL PANE. Gesù, seguendo la tradizione ebraica, aveva usato nell’ultima cena pane azzimo, cioè non lievitato, e la Chiesa, da oltre un migliaio d’anni, se non da sempre, segue questa tradizione. L’uso poi delle ostie, ovviamente rigorosamente azzime, consente anche alla più larga moltitudine di fedeli di partecipare alla comunione eucaristica. La veridicità del segno richiede però che la materia del sacrificio (il pane eucaristico) appaia inequivocabilmente come un alimento. La preghiera con la quale il sacerdote accompagna la presentazione del pane è notevole per la sua bellezza e la sua antichità riallacciandosi direttamente alla preghiera che il pio ebreo pronunciava prima del pasto sopra il pane: Benedetto sei Tu, Signore, Dio dell’Universo. Dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane. Frutto della terra e del lavoro dell’uomo Lo presentiamo a Te perché diventi per noi cibo di vita eterna. E l’assemblea tutta si associa alla preghiera del sacerdote rispondendo: Benedetto nei secoli il Signore. LA PRESENTAZIONE DEL VINO. La tradizione vuole che Gesù abbia utilizzato durante l’ultima cena del vino rosso. Intorno al XV secolo si pensò di usare vino meno colorito per insudiciare meno il panno che era usato al termine della messa per pulire (purificare) il calice. Prima di presentare il vino, il sacerdote aggiunge qualche goccia d’acqua. Questo gesto storicamente ci riporta all’uso antico, anche palestinese dei tempi di Gesù, di aggiungere dell’acqua a un vino, spesso, troppo denso. Ma è graziosa la motivazione che ne faceva Cipriano di Cartagine (256 d.C.): < Se qualcuno offrisse solo vino, succede che il sangue di Cristo non s’incontra con il nostro. Se offrisse solo acqua, è solo il popolo che s’incontra senza Cristo.>. Il sacerdote alza il calice e pronuncia la bellissima invocazione: Benedetto sei Tu, Signore, Dio dell’universo. Dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo vino. Frutto della vite e del lavoro dell’uomo Lo presentiamo a Te perché diventi per noi bevanda di salvezza. INVITO ALLA PREGHIERA. Il sacerdote a questo punto recita a bassa voce una preghiera d’intercessione in nome di tutta l’assemblea. “Umili e pentiti accoglici, o Signore: ti sia gradito il nostro sacrificio che oggi si compie dinanzi a Te” e purifica le proprie mani lavandole con dell’acqua e asciugandole prima di chiedere all’assemblea: “Pregate, fratelli, perché il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio Onnipotente” o con altra invocazione simile, talvolta dettata dalla circostanza. L’assemblea si associa alla preghiera del sacerdote dicendo: “Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio per il bene nostro e di tutta la Santa Chiesa ”. Il sacerdote invita l’assemblea a pregare e lui stesso prega sopra le offerte dell’assemblea (il pane, il vino, l’obolo e quanto ciascuno ha voluto offrire). Tutti siamo qui coinvolti perché è la preghiera sulle offerte. E’ opportuno pertanto che l’assemblea tutta si alzi in piedi per pregare. Concluso il rito di preparazione dei doni con la preghiera sulle offerte, ha inizio la preghiera eucaristica. Si giunge così al momento centrale e culminante dell’intera celebrazione. PREGHIERA EUCARISTICA. Il Sacerdote invita il popolo a innalzare il cuore verso il Signore nella preghiera e nell’azione di grazie, e lo associa a sé nella solenne preghiera, che egli, in nome di tutta la comunità, rivolge al Padre per mezzo di Gesù Cristo. Il significato di questa preghiera è che tutta l’assemblea si unisca con Cristo nel magnificare le grandi opere di Dio e nell’offrire il sacrificio. Gli elementi principali della preghiera eucaristica sono: 1) l’azione di grazie (prefazio); 2) l’acclamazione (santo); 3) l’epiclesi (“manda il tuo Spirito a santificare...”); 4) il racconto dell’istituzione (“nella notte in cui fu tradito...”); 5) l’anamnesi (ricordo) della passione, risurrezione e ascensione di Gesù; 6) l’offerta, la “vittima immacolata”, in altre parole il pane e il vino divenuti Corpo e Sangue di Cristo, è offerta al Padre nello Spirito Santo); 7) le intercessioni (preghiera per la Chiesa, per i vivi e per i defunti); 8) la dossologia finale (Per Cristo, con Cristo...). PREFAZIO. E’ così chiamata la preghiera d’introduzione alla preghiera eucaristica vera e propria o canone. Essa comincia con un dialogo tra il sacerdote e l’assemblea, nella quale il celebrante invita il popolo a innalzare il proprio cuore al Signore, a rivolgere sentimenti e pensiero in quel momento solo a Dio, a fare il deserto intorno a se stessi per potersi indirizzare degnamente a Dio. Un tempo, il prefazio, cantato in latino, in gregoriano, con voce chiara, nitida ed esperta di canto recitativo, assumeva una suggestione oggi sconosciuta. Certamente, alla quasi totalità dell’assemblea, il significato di quelle parole rimaneva incomprensibile, mentre oggi, recitato dal sacerdote in lingua italiana, non può nascondere la bellezza delle espressioni. In realtà, il prefazio non è il discorso che si dice prima del canone, ma piuttosto l’azione di grazia che si proclama davanti alla comunità. E’ un poema, il grido di allegria e di riconoscenza, il canto del mondo che riscopre la sua salvezza, la certezza che fa risplendere la speranza, come deve essere stata la lode al Padre fatta da Gesù il giovedì santo. (Vedi Gio.Cap.17). Certi prefazi antichi, come quello di Ippolito e altri, sono testimoni di questa lode originata in Lui dalla preghiera di benedizione ebraica. Il prefazio termina con un invito a rendere gloria a Dio insieme con gli angeli cantando, o recitando, le tre volte Santo. SANCTUS, SANCTUS, SANCTUS… Esplode ora la gioia infinita del fedele insieme con gli angeli che circondano l’assemblea, con tutti gli angeli, Arcangeli, Cherubini, Serafini della corte celeste, con tutti i Santi che a una sola voce glorificano quel Signore, Dio Onnipotente, Creatore del cielo e della terra. “Santo, Santo, Santo” era il coro degli angeli alla corte celeste nella visione del profeta Isaia (VIII ° secolo a.C.). E’ l’inno che più di qualunque altro andrebbe sempre cantato: è la gloria a Dio dal più profondo del cuore, un ringraziamento per tutti i suoi benefici, per la bellezza della sua creazione. E’ questo l’inno che ci dà la sensazione di non essere soli, di essere spiritualmente uniti nell’acclamazione a Dio con tutta la corte celeste, con tutto il creato, con tutto l’universo. Stelle, astri, pianeti e galassie si uniscono al canto della comunità orante. Si benedice il Padre creatore dell’universo e si benedice il Figlio che viene nel suo nome. Si può lasciare cantare solo il coro? No. Perché se il coro è scadente la nostra mente, si distrae in critiche, se invece ci sembra, musicalmente valido diventa un’esibizione canora. In ambedue i casi non è questo lo scopo del “Santo, Santo, Santo”. Esso è l’espressione massima della Lode universale a Dio, perciò riguarda tutti: “ Chi prega cantando” - recita un detto - “prega due volte”. Non ha importanza se si ha una bella voce o no, se si è intonati o no; il Signore non guarda alle apparenze, ma guarda il nostro cuore. Il canto del “Sanctus” dovrebbe far tremare i muri della chiesa… CONSACRAZIONE O EPICLESI. Epiclesi da epi - clesis ossia invocazione sopra (il pane e il vino), chiamata alla Divinità. Completato il canto del Sanctus, i fedeli s’inginocchiano e, in assoluto silenzio, con attenzione viva e presente, in atteggiamento dimesso, si predispongono a un totale raccoglimento, mentre sull'Altare del Sacrificio si compie l'ineffabile Mistero della Transustanziazione: il Signore si rende presente sull'Altare in Corpo, Sangue, Anima e Divinità, per mezzo del suo ministro consacrato, per la salvezza delle anime dei fedeli presenti e assenti, vivi e morti. Avviene davanti a noi la conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del Corpo di Cristo, e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del suo Sangue. Questa conversione si attua nella preghiera eucaristica, mediante l'efficacia della parola di Cristo e dell'azione dello Spirito Santo. Tuttavia, le caratteristiche sensibili, le apparenze, del pane e del vino, cioè le «specie eucaristiche», rimangono inalterate; ma non sono più le stesse. L’epiclesi sottolinea con superba precisione l’umiltà del ministero sacerdotale. Talvolta si dice che il sacerdote consacra. A essere onesti, l’affermazione è insostenibile. L’epiclesi rivela in ogni caso, con totale esattezza, ciò che fa il sacerdote: dice l’orazione in virtù della quale la comunità celebrante implora il Padre di inviare il suo Santo Spirito sopra il pane e il vino perché si convertano nel Corpo e nel Sangue di Gesù. Cosicché è il Padre che consacra per mezzo del suo Spirito. Risulta pertanto opportuno che il sacerdote reciti la preghiera, l’invocazione, perché questo così avvenga. L’epiclesi è anche un inno di lode alla Trinità. Il Padre sta al centro di questa esaltazione. Egli inviò lo Spirito Santo sopra la vergine Maria affinché sorgesse in lei il corpo di Gesù: ora invia di nuovo il suo Spirito sopra le offerte della comunità perché sopra di esse discenda il Corpo di Cristo risuscitato. La comunità accoglie questa grazia e dà gloria al Padre, attraverso il Figlio nello Spirito. ANAMMESI cioè il Ricordo dell’istituzione dell’eucaristia fatta da Gesù la vigilia della sua passione e morte, quando prese il pane, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli dicendo: PRENDETE E MANGIATENE TUTTI: QUESTO E’ IL MIO CORPO OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI. Il sacerdote solleva l’ostia grande, ormai consacrata, e la espone all’adorazione della comunità che la adora come presenza reale, effettiva del Corpo di Cristo. Il sacerdote prosegue: “Dopo la cena, allo stesso modo, prese il calice Ti rese grazie con la preghiera di benedizione, lo diede ai suoi discepoli e disse: PRENDETE E BEVETENE TUTTI: QUESTO E’ IL CALICE DEL MIO SANGUE PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA, VERSATO PER VOI E PER TUTTI IN REMISSIONE DEI PECCATI. FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME. Il sacerdote alza il calice, mostrandolo alla visione e all’adorazione di tutti i fedeli che lo glorificano e ringraziano nel loro cuore, lieti di quest’opportunità loro concessa. Mi pare opportuno, al momento dell’elevazione dell’ostia, Corpo glorioso di Cristo risorto, ricordare e pronunciare le parole di Tommaso, l’incredulo, nel cenacolo quando Gesù lo invitò a mettere le sue dita nelle sue ferite dei chiodi: < Mio Signore e mio Dio>. E’ l’incontro ravvicinato con il Mistero! Infatti, il sacerdote lo ricorda dicendo: < Mistero della fede>. E l’assemblea risponde: “Annunciamo la Tua morte, Signore, proclamiamo la Tua risurrezione, nell’attesa della Tua venuta“. Questo momento, quello della ELEVAZIONE, è certamente il momento più alto e più suggestivo di tutta la celebrazione eucaristica. Come dovrebbe comportarsi il fedele? Deve inginocchiarsi o rimanere in piedi (non certamente seduto)? Se si è veramente coscienti alla presenza di chi ci troviamo di fronte, chi siamo chiamati ad adorare, la risposta non può essere che: prostrati in ginocchio. Si deve aggiungere però che un’altra corrente di pensiero sostiene che, essendo redenti da Cristo, ed essendo Cristo Gesù risuscitato, vivo e quindi in piedi, anche il fedele può rimane in piedi a ricordo della sua Risurrezione. Personalmente, ritenendomi peccatore, e sempre oggetto della misericordia di Dio penso che, quando c’è la possibilità, cioè ci sono gli inginocchiatoi disponibili, ci si debba mettere in ginocchio, evitando per quanto possibile l’inginocchiarsi ostentatamente per terra, che, a me pare, talvolta, un’inutile ed inopportuna esibizione. LA PREGHIERA EUCARISTICA continua da parte del sacerdote che, a mani alzate in segno di preghiera, pronuncia le invocazioni per l’assemblea riunita, per la gerarchia ecclesiastica, per il Papa, i vescovi suoi collaboratori, l’ordine sacerdotale, i presbiteri e i diaconi. Invoca l’Altissimo affinché accolga nel suo seno tutti i fedeli defunti che si sono addormentati nella speranza della risurrezione e li unisca ai santi, alla vergine Maria, a San Giuseppe e a tutti i santi a Dio graditi nello scorrere dei secoli, affinché li riunisca tutti in un solo corpo (quello di Gesù Cristo). Alla fine della preghiera il sacerdote alza con una mano la patena (o la pisside) e con l’altra il calice e pronuncia la dossologia: < CON CRISTO, PER CRISTO ED IN CRISTO, A TE, DIO PADRE ONNIPOTENTE, OGNI ONORE E GLORIA PER TUTTI I SECOLI DEI SECOLI>. Al ché l’assemblea si associa con il suo sonoro, convinto AMEN (è così!). Questa formula è esclusiva del sacerdote e non è né bello né opportuno che qualcuno se ne arroghi il diritto di pronunciarle, sia pure facendo eco alle parole del sacerdote. Un tempo si diceva che il fedele assisteva alla Santa Messa, oggi la comunità partecipa attivamente al rito eucaristico, ma ciascuno secondo il suo ruolo. Con questa invocazione di lode a Dio termina la preghiera eucaristica e si entra nell’altro momento della celebrazione che sono i RITI DI COMUNIONE. I riti di comunione hanno inizio con la recita o il canto della preghiera del Signore. 1) II Padre Nostro. La sua proclamazione è introdotta da una formula, quasi un "prologo", pronunciata dal sacerdote, che richiama l'importanza di questa preghiera, invita a proferirla con devozione, ricorda che è stata istituita dal Signore stesso. 2) Dopo il “Padre Nostro” il sacerdote recita l'embolismo, [si chiama embolismo uno sviluppo letterario a partire da un testo; in questo caso a partire da “ liberaci dal male…” ; 3) Subito dopo, il sacerdote invita l’assemblea a scambiarsi un segno di pace in segno di comunione fraterna; 4) Il celebrante inizia l’invocazione cristologia dell'Agnus Dei: "Agnello di Dio, … Questa invocazione ha una forte dimensione eucaristica, perché pronunciata durante i riti della frazione del pane (visibile a tutti); 5) L’immistione (una piccola porzione dell'ostia viene posta dentro calice: le specie eucaristiche, prima separate, sono ora unite, a significare l'integra presenza di Cristo in esse) riprende il cibarsi dell'agnello nella cena pasquale ebraica accostandolo alla vera cena dell'Agnello, la comunione eucaristica; 6) Dopo una breve preghiera privata, l'Ostensione del pane-corpo di Cristo; 7) In atto di umiltà, i fedeli si avviano all'altare in raccoglimento, solitamente cantando, ove ricevono (sulla lingua o sul palmo della mano, per propria scelta) il Corpo di Cristo, cibandosene. IL PADRE NOSTRO. Il celebrante ricorda all’assemblea come il Signore abbia concesso alla comunità il suo Spirito e, con una formula adatta alla circostanza e al momento, invita alla recita della preghiera che Gesù stesso ha insegnato ai suoi discepoli e quindi anche a noi. Non è il caso di esaltare ulteriormente questa preghiera perché tutti la conoscono e sanno quali tesori di amore filiale, siano in essa richiusi. Diciamo solo che si divide in sette petizioni o richieste. Le tre prime sono, per così dire, “celestiali” nel senso che si rivolgono a Dio: al suo nome, al suo Regno, e alla sua volontà. SIA SANTIFICATO IL TUO NOME VENGA IL TUO REGNO SIA FACCIA LA TUA VOLONTA’ COME IN CIELO COSI’ IN TERRA Le quattro petizioni seguenti poiché si riferiscono all’uomo, si possono dire “terrestri”: DACCI OGGI IL NOSTRO PANE QUOTIDIANO RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI COME NOI LI RIMETTIAMO AI NOSTRI DEBITORI NON CI INDURRE IN TENTAZIONE MA LIBERACI DAL MALE Secondo la volontà espressa da Gesù nella “preghiera del Signore”, Dio desidera essere invocato con il tenero nome di “ABBA’, PADRE”. Il Padre Nostro non è la petizione di un qualche servo al suo padrone, ma l’implorazione dei figli al Padre. Nel pronunciare l’invocazione al Padre, si prende coscienza della reale filiazione: solamente i figli possono dire “Padre”. EMBOLISMO. La preghiera del “Padre nostro”, che l‘assemblea pronuncia in piedi, e che non si conclude con l’amen, ma si lascia in sospeso con “liberaci dal male….”, la termina il sacerdote con “ Liberaci, o Signore, da tutti i mali….”. Questa preghiera liturgica intercalata nel canone della messa (detto embolismo) chiede a Dio la liberazione di tutti i mali, di concederci la pace, tenerci lontano dal peccato in attesa della venuta di Gesù Cristo. A questa preghiera l’assemblea risponde con una nuova lode a Dio: < Tuo è il Regno, Tua la Potenza e la Gloria nei Secoli>. Al termine del “Padrenostro”, se il tabernacolo è un po’ distante dall’altare, un sacerdote concelebrante, o un diacono, o un ministro straordinario della comunione va a prelevare, dove è custodita, la pisside dove sono state conservate le particole (le ostie) consacrate e non consumate nelle precedenti celebrazioni. La pisside (è il vaso sacro nel quale è conservata l’eucaristia, è composto di piede, fusto, coppa e coperchio). L’incaricato di portare la Pisside la depone sul corporale (e non sulla tovaglia), compie un atto di adorazione con la genuflessione o con un profondo inchino e si allontana dall’altare. RITO DELLA PACE. Il celebrante invita l’assemblea a scambiarsi un segno di comunione e pace fraterna. E’ uso scambiarsi una frettolosa e distratta stretta di mano; ma è sufficiente? Non sarebbe opportuno metterci un po’ più di calore? Taluni usano il saluto francescano “Pace e Bene”. Mi sembra riduttivo e non adeguato. Gesù agli apostoli dopo la Risurrezione disse: < Pace a voi!>. Avendo ricevuto anche noi lo Spirito di Dio, sarebbe opportuno salutarsi con: “LA PACE SIA CON TE”. E’ vero desiderio di comunicare ai fratelli e sorelle vicini l’augurio più bello di Gesù, dopo la Risurrezione, < Pace a voi>. La pace invocata non è solamente una mancanza di guerra o di conflitto, ma la Pace che proviene da Dio, cioè pace e gioia nello Spirito Santo. Questa pace ci si augura tra fratelli. Basta questo per rimanere nel tema dello Spirito senza scivolare nel bacio santo della pace riservato a celebrazioni in piccolissime comunità omogenee ma dispersive e fonti di disordine in una celebrazione parrocchiale. Il saluto dovrebbe riservarsi ai vicini di banco, senza abbandonare il proprio posto volendo salutare tutti. AGNELLO di DIO. Il sacerdote invita alla recita dell’invocazione all’Agnello di Dio sacrificato, cioè a Gesù Cristo stesso, unico ed eterno agnello immolato una volta per tutte per i nostri peccati. Si ricorda qui come Gesù si sia offerto volontariamente come vittima sacrificale caricandosi (dal latino tollere che non significa solo “togliere” ma anche farsi carico, addossarsi, portare su di se) dei nostri peccati. Sono delle antifone queste che per averle sentite decine di volte abbiamo smesso di penetrarne l’intrinseco e profondo significato. Il Signore Gesù ha portato sulla Croce i nostri peccati lasciandosi inchiodare al legno per essi e con essi. Si è fatto Agnello sacrificale, vittima innocente umiliata e inchiodata perché noi non fossimo più umiliati dal peccato e da schiavi che eravamo diventassimo liberi per i suoi meriti. FRAZIONE DEL PANE. Contemporaneamente, il sacerdote prende il pane (l’ostia grande) e tenendola sopra il calice lo spezza. Lo tiene sopra il calice col vino affinché se una pur piccola particella dovesse schizzare possa cadere dentro il calice e non fuori. Infatti, anche l’infinitesima parte, la più piccola delle briciole, contiene tutto intero il Corpo di Cristo e disperdendolo si commetterebbe sacrilegio. Il rito della frazione del pane rinnova il gesto di Cristo nell’ultima cena. In ricordo di questo, durante l’era apostolica la celebrazione eucaristica era chiamata semplicemente “ la frazione del pane”. Durante la “frazione del pane” il sacerdote lascia cadere una briciola del pane nel calice a mischiarsi col vino. Quest’atto compiuto di fronte all’assemblea e da tutti ben visibile, si chiama “Immistione”: le specie eucaristiche, prima separate, sono ora unite, a significare l'integra presenza di Cristo in esse e ricorda il cibarsi dell’agnello nella cena pasquale ebraica accostandolo alla vera cena dell’Agnello, la comunione eucaristica. Mentre compie la “Frazione del Pane” e la “Immistione”, il sacerdote recita a voce bassa una preghiera rivolta a Gesù Cristo affinché lo liberi da ogni colpa. OSTENSIONE. Ora il celebrante riunisce il pane spezzato, mancante della frazione immessa nel calice, e alzandolo in modo che sia da tutti visibile pronuncia: “ Beati gli invitati alla cena del Signore. Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”. Chiama “ beati” coloro che si sentono invitati a partecipare alla cena del Signore, cioè a nutrirsi del suo Santo Corpo. Nessuno può dichiararsi veramente degno e quindi beato. Il centurione romano, pagano, che chiedeva la guarigione del suo servo, a Gesù che si accingeva a seguirlo per entrare nella sua casa disse: . Noi oggi diciamo: < O Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa, ma di’ soltanto una parola ed io sarò salvato>. Con una sola Parola Tu ci hai creati, o Signore, e con una sola Parola Tu ci puoi salvare. Il sacerdote si comunica con le due specie chiedendo al Signore che il Corpo e il Sangue di Cristo lo custodiscano per la vita eterna. COMUNIONE. Comunione (cioè unione con… ) con Cristo. Unendosi a Lui colui che riceve l’ostia, diventa parente, consanguineo di Cristo Gesù. Finché quel pane consacrato rimane pane, il fedele è unito al Figlio di Dio, a Dio stesso: è divenuto tabernacolo, arca dove è riposto, custodito il Santo dei Santi, il Re dei Re. Pur rimanendo peccatore, fragile e insicuro il comunicando è invaso completamente dallo Spirito di Dio e non serve quindi segnarsi o inchinarsi o genuflettersi: tu ospiti Cristo! Se fossimo veramente coscienti del dono ricevuto e Chi portiamo dentro di noi, ci inchineremmo l’uno di fronte all’altro. Riflettere su questo dono, assolutamente gratuito e immeritato, c’è da sentir tremare vene e polsi. Si è partecipi, si è dentro il Mistero, si è parte di quel Mistero che non è altro che quella realtà sovrannaturale che la nostra razionalità non riesce a penetrare. Solo la fede ne è capace. E’ un dono gratuito, abbiamo detto. Ora si può andare a ricevere un dono meraviglioso come questo con animo triste, immusoniti e accorati come a un funerale? Il fedele, cosciente di Colui che sta per ricevere, deve avere l’animo lieto, deve far trasparire la gioia del dono. Ma come accogliere Gesù? Cirillo di Gerusalemme (+387) suggeriva ai neofiti: < Quando ti accosti (al Sacramento eucaristico) non ti avvicinare con la mano aperta, né con le dita spalancate ma fai con la tua sinistra un trono per la destra che va a ricevere il Re. Accogli il Corpo di Cristo nel cavo della tua mano e rispondi “Amèn “>. E’ consuetudine accompagnare la processione eucaristica con un canto, ma sarebbe opportuno che non andasse oltre la metà del tempo dedicato alla distribuzione dell’Eucaristia per consentire il colloquio intimo con Colui che ci ha visitato senza distrarlo col canto. Per molti è questo il momento più bello, più intimo in cui colloquiare con nostro Signore Gesù Cristo. RITI CONCLUSIVI. Finita la distribuzione dell’Eucaristia, il sacerdote purifica la patena e il calice. Nella patena possono esserci delle minuscole briciole di pane consacrato, pertanto con il “purificatoio” (piccolo fazzoletto di lino) le fa cadere dentro il calice. Aggiunge dell’acqua dall’apposita ampollina e il celebrante la beve fino all’ultima goccia. Poi, sempre col purificatoio, deterge accuratamente e ripetutamente l’interno del calice al fine di far sparire ogni traccia di liquido. Ripiega il corporale e lo ripone insieme col purificatoio e il palla sopra il calice. Tutta l’assemblea a questo punto è seduta in raccoglimento ed anche il sacerdote si siede per raccogliersi anche lui in preghiera personale di ringraziamento. ORAZIONE dopo la comunione. Accostatosi all’altare, il celebrante legge l’Orazione dopo la Comunione. L’assemblea (in piedi) risponde Amen. Se non ci sono avvisi particolari che riguardano la comunità, il celebrante impartisce la Benedizione nel Nome delle tre persone della Trinità: del PADRE, del FIGLIO e dello SPIRITO SANTO. BENEDIZIONE. Purtroppo si deve registrare un sempre minore interesse per questa forma di dono. Qualcuno alla fine della Orazione dopo la Comunione abbandona chetamene la chiesa, quando non lo fa subito dopo la comunione. Eppure questo dono ha radici ebraiche (berakah = benedizione) antichissime che si perdono nella notte dei tempi. Ma anche più recentemente, nel N.T. la pratica della benedizione ha radici ben fondate. Prima di inviare i suoi discepoli nel mondo a testimoniare la sua avvenuta risurrezione davanti a tutte le nazioni, Cristo Gesù “alzò le mani e li benedisse". E mentre li benediceva, si separò da loro e salì al cielo” (Lc. 24,50-51). Prima di inviare i fedeli nel mondo ad annunziare ai propri fratelli la resurrezione di Cristo, il sacerdote, allo stesso modo, alza le mani sopra di loro, li segna col segno della croce e invoca sopra di loro la benedizione del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. I fedeli si sono riuniti nella chiesa, santuario di pietra: adesso vanno a espandersi nel santuario che è l’universo intero. Si sono riuniti per fare una comunità di fratelli, vanno ora a portare ai propri fratelli, nel mondo, la croce di luce con la quale essi sono stati segnati. Avevano formato una comunità di lode a Dio, adesso vanno a far risuonare questa lode sopra tutta la terra. Questa benedizione finale, nel momento nel quale il presidente abbandona la sua assemblea, manifesta bene il vincolo che lo unisce alla sua comunità. Il sacerdote è stato ordinato non per dominare sui suoi fratelli, ma per portare loro la benedizione di Dio segnandoli con la croce di Cristo. A dir la verità, non è nemmeno lui chi li benedice, ma piuttosto pronuncia l’orazione nella quale supplica Dio che li benedica: “ Che Dio Onnipotente vi benedica…” . La Benedizione è una sola, è un dono gratuito che Dio fa alle sue creature; essa è in rapporto con la vita e il suo mistero ed un dono espresso mediante la Parola e il suo mistero. La benedizione è sia parola che dono, sia dizione che bene (latino bene – dictio) perché il bene che essa apporta non è un oggetto preciso, un dono definito, perché non appartiene alla sfera dell’avere ma a quello dell’essere, perché non deriva dall’azione dell’uomo, ma dalla creazione di Dio. Forse apprezziamo maggiormente la Benedizione se pensiamo al suo contrario, cioè alla maledizione. E’ strano come si sia più sensibili alla maledizione – potere negativo – che non alla benedizione - potere assolutamente positivo. CONGEDO E SCIOGLIMENTO DELLA ASSEMBLEA. Il sacerdote licenzia l’assemblea invitandola a non disperdere quanto hanno ricevuto di grazie e di farne tesoro della loro vita glorificando Dio con il loro comportamento.

martedì 27 dicembre 2011

Povere riflessioni sulla Annunciazione Il vangelo di Luca ci parla dell’annuncio dell’angelo a Maria, mentre il vangelo di Matteo lo ignora e Marco racconta di Gesù all’inizio della sua missione in terra. Premetto che l’interpretazione, o ermeneutica dei passi evangelici di cui parleremo non è tutta farina del mio sacco, ma sono ricordi di lezioni a me molto care. Soprattutto mi sono care queste interpretazioni. Galati [4]) Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio... Quando venne la pienezza del tempo, cioè, quando tutta la storia, mandata avanti da Dio con mano sapiente, fu matura per ricevere il Figlio suo diletto, Gesù nacque. Il Signore aveva provveduto nei secoli a mandare dei profeti come Geremia, Isaia ecc. ad annunziare la venuta del suo unico Figlio nel mondo. Da ultimo Giovanni Battista predicava dal deserto la conversione in vista della venuta del Cristo. Preceduto da oltre 300 annunzi sulla venuta del Cristo profetati dagli inviati di Dio nell’arco dei secoli, Gesù, Figlio di Dio incarnato, apparve ai suoi contemporanei. Anche gli avvenimenti socio- politici erano stati preparati dal Signore per accogliere il Salvatore del mondo. Infatti, regnava la pax romana che se pur teneva i popoli soggetti, consentiva una certa tranquillità nel mondo allora conosciuto e soprattutto nella zona medio – orientale. Da circa trecento anni questa regione era sotto il dominio dei litigiosi eredi politici di Alessandro Magno, ma nel 63 a.C. Pompeo conquistò la Palestina, imponendo da allora la pax romana. Questo voleva dire facilità (sempre relativa, dati i tempi) di circolazione delle merci, delle persone e delle idee, possibilità di spostarsi da un capo all’altro del mondo senza incontrare guerre o sommovimenti. A questo va aggiunta la tolleranza religiosa dei romani, dovuta non a magnanimità ma a mero calcolo politico. I romani per mantenere questa pace avevano bisogno di finanziamenti che attingevano dalle popolazioni sottomesse mediante tributi e per stabilire l’entità dei tributi e dei contribuenti aveva bisogno di conoscere il loro numero. Da qui la necessità dei censimenti. Il popolo di Israele viveva ormai in Palestina seguendo la legge mosaica, anche se dal suo ritorno dall’esilio babilonese non aveva più conosciuto indipendenza politica, ma fosse rimasto nell’orbita delle grandi potenze allora dominanti. La sua unità era sancita dalla legge mosaica garantita da un consiglio supremo, il Sinedrio, scandita dalle ricorrenti feste religiose e soprattutto dalla festività della Pasqua che era celebrata tutti gli anni con grande partecipazione di folla proveniente da ogni parte della Palestina e anche dall’estero, dalla diaspora. Quasi tutte queste feste si celebravano in Gerusalemme rinsaldando così l’unità religiosa del popolo di Israele e la fedeltà a un unico vero Dio. Pertanto i tempi erano maturi per la venuta del Messia, dell’Unto del Signore, del Cristo. Vangelo di Luca: (Luca cap. 1) L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, [27]a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Il matrimonio in quel periodo era concordato tra i genitori dei futuri sposi all’età di dodici—tredici anni per le donne; e pertanto Maria non ne doveva avere di più. Era quindi una ragazza di un villaggio di nessuna importanza della Galilea, Nazaret (Nazaret è citata nella Bibbia solo tredici volte e tutte nel N.T.), certamente educata nel timore di Dio, come tutte le ragazze del tempo, ma di nessuna esperienza. E’ quasi certo che non sapesse leggere e scrivere, come tutte o quasi, le donne nell’Israele di quei tempi: lo studio della Torah non si addiceva alla donna. La donna aveva altri compiti nella società e nella famiglia. Come dice X. Leon Dufour nel suo Dizionario di teologia biblica, la donna in Israele, e in tutto il Medio Oriente, non uscì mai dallo stato di minorenne; il suo unico compito era quello della maternità. L’autonomia personale era limitata alla sfera domestica e non oltre. Come la donna araba odierna, forse, l’ebrea di allora era totalmente affidata al padre prima e al marito poi che ne era responsabile e che aveva l’obbligo di accompagnarla per strada, o di affidarla a un uomo della famiglia. Infatti, leggiamo nei vangeli che i “fratelli” di Gesù accompagnavano sempre Maria, sua madre, dopo che Gesù aveva iniziato la vita pubblica. Marco cap. 3) [21]Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; poiché dicevano: «E' fuori di sé» (Matteo cap. 12) [46] mentre egli parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi fratelli, stando fuori in disparte, cercavano di parlargli. Vedi anche (Matteo cap. 13, 55). In conclusione, Maria non è mai sola; è sempre accompagnata dai cugini di Gesù perché lei non è autonoma e dipende dalle decisioni prese dai parenti, come quando “uscirono per andare a prenderlo; poiché dicevano: «E' fuori di sé». Maria non avrebbe mai detto né pensato una cosa del genere: Lei che sapeva e che meditava nel suo cuore. La libertà femminile è chiusa in uno schema rigido e impenetrabile e, come vedremo, solo Gesù Cristo rompe questo schema, e, forse, non ha ancora finito di romperlo. Solo gli uomini, i maschi avevano il diritto/ dovere di leggere la scrittura e di proclamarla. Ancora oggi il pio ebreo si rivolge a Dio, in tutta buona fede e sincerità di cuore, con queste parole: “ Benedetto sii tu, Dio nostro, per non avermi fatto né pagano, né donna, né ignorante”. Mentre la donna ebrea dice: “ Lodato, sii tu, o mio Signore, perché mi hai creata secondo la tua volontà”. Che alla donna non fosse concesso di accedere direttamente alla parola di Dio ne abbiamo un esempio nel Vangelo di Luca, nell’episodio di Marta e Maria. Per capire bene il brano occorre rifarsi all’episodio precedente del Dottore della Legge che chiede a Gesù cosa si deve fare per ereditare la vita eterna. (Lc 10,25). Marta accoglie nella sua casa Gesù perché forse lei è la sorella maggiore, quindi responsabile del buon andamento della casa, e si mette a sfaccendare per accogliere degnamente l’ospite illustre e rispettabile. “ (Lc10,39) Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; ” Anche Maria è cosciente di avere come ospite una persona eccezionale, si lascia affascinare dalle sue parole e si accoccola ai suoi piedi, come un discepolo. E come un discepolo pende letteralmente dalle sue labbra cercando di non perdere nulla dell’insegnamento di Gesù. Certamente anche a lei sono state insegnate e sa sbrigare quelle faccende domestiche cui è intenta Marta, la sorella maggiore. La sua visione sull’ordine d’importanza delle cose differisce totalmente da quello di Marta. Ed ecco che Marta si spazientisce, non capisce e disapprova la condotta immorale della sorella (Luca cap. 10)Pertanto, fattasi avanti, disse: “Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. Ecco che Marta si spazientisce e, “fattasi avanti”, non si rivolge alla sorella, ma, per dare maggior risalto alla sua protesta, si rivolge, impudentemente, secondo la sua concezione dei ruoli, a Gesù, all’ospite da cui lei doverosamente si tiene educatamente lontana, all’uomo che conosce la Legge, all’autorità del profeta di Dio, se non proprio al Messia. Questi certamente avrebbe dato il giusto valore alle sue parole e avrebbe scacciato dai suoi piedi quella sfacciata, usurpatrice di ruoli che non le competevano. In poche parole intendeva dire: “Manda via questa svergognata che, dimentica dei doveri e del posto spettante alle donne, ha messo i pantaloni e si comporta come un uomo; non le si addice. Cacciala via”. Era la voce non solo della tradizione di Israele ma della Legge stessa. (Luca cap. 10)[41]Ma Gesù le rispose: “Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, [42, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta”. Gesù taglia corto e le rammenta che una sola cosa è importante e questa a Maria non le sarà tolta: l’eredità della vita eterna, e la strada ed il modo per conquistarsela E’ questa la sola cosa di cui c’è bisogno e Maria l’ha capita. Gesù rompe lo schema della tradizione per elevare Maria al rango di discepolo consentendole di stare ai suoi piedi come qualsiasi discepolo. Con Gesù la donna assume altri ruoli fino allora impensati: da quasi sottoprodotto della creazione, da compagna di Adamo a lui sottomessa, a creatura di pari dignità e diritti. Questo doveva essere lo schema di vita insegnato a Maria, Madre di Gesù. Questo doveva essere l’ambito in cui si sviluppava la sua vita, in cui lei viveva: preghiera, lavoro domestico, pasti con preghiera di ringraziamento e ancora lavoro domestico preghiera e riposo notturno. Gli unici diversivi erano le feste religiose ricorrenti, il viaggio a Gerusalemme per la Pasqua, qualche matrimonio nella parentela o nel villaggio; ma esperienze religiose personali zero. In questa situazione di vita l’angelo Gabriele, l’inviato del Signore, comincia ad annunciarsi a Maria. Prima di procedere all’analisi dell’Annunciazione chiediamoci: Perché Maria? Che significato può avere questa nascita? Che cosa rappresenta Maria nell’eccelso e misterioso disegno di Dio per la salvezza? Maria era una modesta e umile “figlia di Gerusalemme”, completamente e perfettamente integrata nell’ebraismo, nella Legge mosaica e nella tradizione del popolo ebreo. In conclusione si può dire che Maria rappresentava (e rappresenta) l’anima e la fede del popolo ebreo. E in quest’anima e in questa fede, in cui si compendia tutto il Vecchio Testamento, il Figlio di Dio si fa carne, viene in mezzo a noi, innestandosi per così dire, Lui, il nuovo, nel vecchio. Il Nuovo Testamento, la nuova e definitiva alleanza che sarà suggellata sul legno della Croce, si lega al Vecchio Testamento nel seno di Maria. Ciò sta a significare che noi cristiani non possiamo in alcun modo dimenticare che fummo innestati nel tronco e nella fede del popolo ebraico. Il cristianesimo, senza il popolo ebraico e la sua tradizione, non ha radici, è spurio. Gli ebrei sono, come ha detto Giovanni Paolo II, i nostri fratelli maggiori. Detto questo, vediamo l’incontro di Maria con l’Angelo. (Luca cap. 1) [28]Entrando da lei, disse: “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te”. [29]A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. Se pertanto l’angelo Gabriele si fosse presentato a lei, così come ce lo raccontano i vangeli o come fu dipinto dai pittori del nostro rinascimento, penso che lei si sarebbe non solo turbata ma addirittura terrorizzata. Mi pare più credibile pensare che lei abbia cominciato a sentire delle voci, delle chiamate, mentre era sola in casa, mentre andava o tornava dalla fonte a prendere l’acqua o in un qualsiasi momento della sua vita di giovane donna. L’approccio del Signore non è mai violento, non tende mai a traumatizzare ma a tranquillizzare, a rendere la persona serena e disponibile. Il Signore apparve diverse volte ad Abramo. Però Abramo si aspettava la visita del Signore: era in costante colloquio con Lui. Oppure Abramo intuì la presenza del Signore nei tre viandanti che gli apparvero alla quercia di Mamre. Ma mai ne fu turbato. Apparve moltissime volte a Mosè, e sempre il Suo approccio fu dolce. E così ai profeti. Ezechiele, Geremia ecc. sono stati visitati dal Signore ma sempre in modo discreto. Alla stessa stregua fu la chiamata di Samuele (1 Sam 3, 1-10). Samuele non sapeva da dove venisse quella chiamata e andava da Eli, il sacerdote, credendo che fosse lui a chiamarlo: (1Samuele cap. 3). Allora Eli comprese che il Signore chiamava il giovinetto. [9]Eli disse a Samuele: “Vattene a dormire e, se ti si chiamerà ancora, dirai: Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”. Anche Maria aveva il suo Eli in Giuseppe, suo promesso sposo, cui confidava certamente i suoi più segreti pensieri, come è naturale che avvenga tra l’inesperta fidanzata e il promesso sposo, forse più maturo di lei. Certamente Giuseppe, a conoscenza della chiamata di Samuele, la consigliò di fidarsi del Signore e di affidarsi a Lui: “Parla, Signore, che la tua serva ti ascolta”. Ed è allora che l’angelo si presentò a lei per annunziarle i progetti del Signore. Ma il turbamento di Maria, in effetti, è dovuto al saluto che le rivolge l’angelo: “ kàire, kekaritomène” Che significa “Rallegrati, o piena di grazia”. “’O Kìrios metà sòu” che significa “ il Signore con te”. Cioè “Gioisci, stai allegra perché il Signore è con te, il Signore ti ama, ti apprezza e ti benedice” (Luca cap. 1)[29]A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. Avrà pensato Maria: “Che dovessi ricevere un messaggio dal Signore era ormai certo, ma non capisco che senso abbia questo invito alla gioia, a rallegrarmi. Certamente sono lieta che il Signore abbia chinato il suo sguardo su di me, ma a quale scopo ?” Ed ecco che l’angelo si affretta a chiarire lo scopo della sua visita, non prima di averle confermato la berakah, la benevolenza del Signore nei suoi confronti: (Luca cap. 1)31]Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. [32]Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre [33]e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”. Sarà opportuno soffermarci un po’ sulle parole dell’angelo. Queste chiariscono lo scopo della sua venuta, ma aprono una serie d’interrogativi. Questo bambino sarà dunque figlio di Maria perché lei lo concepirà e lo darà alla luce. Sarà figlio di Davide, poiché chiama Davide suo padre. E inoltre sarà chiamato Figlio dell’Altissimo, cioè Figlio di Dio. Cominciamo da FIGLIO DI DAVIDE. C’è un chiaro riferimento alla profezia di Natan, il profeta di Davide cui preconizzò (2Samuele cap. 7) una casa farà a te il Signore. [12]Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu giacerai con i tuoi padri, io assicurerò dopo di te la discendenza uscita dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. [13]Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile per sempre il trono del suo regno. [14]Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio…non ritirerò da lui il mio favore. [16]La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a me e il tuo trono sarà reso stabile per sempre”. Ecco quindi che questo bambino erediterà il trono di Davide, sarà figlio di Davide, ne continuerà il regno (1Cronache cap. 17)11]Quando i tuoi giorni saranno finiti e te ne andrai con i tuoi padri, susciterò un discendente dopo di te, uno dei tuoi figli, e gli renderò saldo il regno. [12]Costui mi costruirà una casa e io gli assicurerò il trono per sempre. [13]Io sarò per lui un padre e lui sarà per me un figlio; non ritirerò da lui il mio favore come l’ho ritirato dal tuo predecessore. [14]Io lo farò star saldo nella mia casa, nel mio regno; il suo trono sarà sempre stabile”. E questo regno non avrà mai fine, sarà stabile per l’eternità (Isaia cap. [6]grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e sempre; questo farà lo zelo del Signore degli eserciti. (Geremia cap. 23) [5]”Ecco, verranno giorni - dice il Signore - // nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio // ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra. (Marco cap. 12) [35]Gesù continuava a parlare, insegnando nel tempio: “Come mai dicono gli scribi che il Messia è figlio di Davide? [36]Davide stesso, infatti, ha detto, mosso dallo Spirito Santo: Disse il Signore al mio Signore: // Siedi alla mia destra, // finché io ponga i tuoi nemici come sgabello ai tuoi piedi. Mt 9,27 nota Figlio di Davide: titolo messianico ( 2Sam 7,1+; cf. Lc 1,32; At 2,30; Rm 1,3 ), comunemente accolto dal giudaismo ( Mc 12,35; Gv 7,42 ) e di cui Mt ha particolarmente sottolineato l’applicazione a Gesù ( Mt 1,1; Mt 12,23; Mt 15,22; Mt 20,30p; Mt 21,9; Mt 21,15 ). Gesù l’ha accettato solo con riserva, perché implicava una concezione troppo umana del Messia ( Mt 22,41-46; cf. Mc 1,34+ ), e gli ha preferito il titolo misterioso di Figlio dell’uomo ( Mt 8,20+ ). Questo bambino non sarà come una meteora che appare e scompare senza lasciare tracce né senza sapere da dove abbia avuto origine. La sua venuta è stata annunziata dai profeti molte volte nel corso dei secoli. Egli ha legami strettissimi con il re Davide e con gli antenati di lui, i patriarchi personificati in Giacobbe - Israele. E sarà anche Figlio di Dio come dice l’inizio del Salmo 110, salmo di Davide, citato da Marco al cap. 12. Come dice la nota al cap. 9,27 di Matteo l’espressione Figlio di Davide è un’espressione messianica citata nei vangeli 16 volte. Questo bambino viene da lontano, ha legami indissolubili con il passato, con la storia, con la storia di Dio e del suo popolo. Non sarà quindi uno sconosciuto, non sarà uno venuto dal nulla, ma chiunque saprà in Israele, e fuori, da dove proviene, chi sono i suoi padri. Nessuno potrà dire: “Non ti conosco”. Nel mondo ebraico il nome di una persona aveva una grande importanza significando esso l’essenza stessa dell’individuo, la sua particolare e irripetibile personalità. Ma accanto al nome proprio aveva un’enorme importanza anche l’identità degli ascendenti. Senza ascendenti, senza padri, senza antenati era difficile collocarlo nella società fosse essa tribale o nazionale: uno non esisteva. Anche tra noi, oggi, sebbene con connotazioni e significati differenti, nessuno può esistere nella società civile senza un cognome che fa evidente riferimento agli antenati, perciò tutti portiamo un secondo nome, oltre a quello proprio, personale, che riporta agli antenati. Ecco perché l’angelo precisa che il bambino porterà il sangue di Giacobbe ed erediterà il trono di Davide. Non ci sono e non possono esserci fratture fra il bambino concepito e i suoi padri. Egli sarà figlio di Maria. Maria lo accoglie nel suo grembo per il periodo della gestazione, Maria gli darà il suo sangue, Maria lo nutrirà durante la gestazione e dopo, Maria lo alleverà: Egli sarà quindi un uomo. Un uomo simile e tutti gli altri uomini. Avrà le stesse necessità di nutrimento, avrà bisogno, come tutti, delle cure parentali, sarà soggetto ad ammalare, a soffrire per la malattia, per una ferita. Dovrà imparare, apprendere come ogni bambino le cose più semplici. Si comporterà come ogni bambino, come ogni adolescente, come ogni ragazzo, come ogni adulto. Io amo pensare che il piccolo Gesù nella sua infanzia, proprio perché era un bambino come gli altri, abbia fatto anche qualche innocente capriccio. Nella sua vita terrena sarà soggetto a tutte le necessità e sofferenze umane, nessuna esclusa: sarà un uomo secondo tutti i punti di vista. Sarà pure soggetto a tutte le tentazioni: (Luca cap. 4)[13]Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione. In una cosa sarà differente: non sarà soggetto al peccato, non conoscerà il peccato. E come potrebbe? Potrebbe offendere se stesso? Sebbene fosse uomo e vero uomo era anche Dio e vero Dio. Parlando o pensando a Gesù siamo portati a pensare: “Tanto lui era Dio!” Sì era Dio ma anche vero uomo. Gesù aveva sentimenti comuni a molti. Sentiva compassione, per esempio. Più di una volta Gesù ebbe compassione del popolo che gli veniva appresso per ascoltarlo e guariva le loro malattie (Matteo cap. 9,36; 14,14; 15,32;26,37)(Marco cap. 1,41)(Luca cap. 7,12b ss; ), piangeva per la sorte riservata alla città di Gerusalemme Lc. .19,41), si commuoveva per l’amico morto (Giovanni cap. 11,33;38;12,27;13,21;). Gesù, come ogni uomo, aveva paura della morte e della sofferenza (Ebrei cap. 5,7) [7]Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; “E fu esaudito per la sua pietà”, dice il testo. Ma fu esaudito solo nel rendere sopportabile il suo supplizio, ma non nell’evitarlo: Egli era venuto per fare la volontà del Padre e questa la doveva fare fino in fondo. Nessuna caratteristica dell’uomo gli fu risparmiata: gioiva, si commuoveva, piangeva di gioia e di dolore, come tutti gli uomini sulla terra dalla creazione del mondo. Beveva e mangiava con piacere, gli piaceva stare con gli amici, i discepoli, ma anche con pubblicani e peccatori perché diceva di essere venuto per i malati e peccatori e non per i santi e pii. Li rimproverava per i loro peccati ma senza giudicarli e tanto meno condannarli perché nessun uomo può giudicare il suo simile. Egli li accettava per quello che erano cercando di correggerli con le parole e con l’esempio. Esempio di comportamenti e di parabole desunte dalla vita di tutti i giorni allora in Galilea e Giudea. Poneva esempi che tutti potessero controllare perché era la vita di tutti i giorni. Egli vedeva il pastore curare le proprie pecore come se fossero dei suoi figli e lui paragona se stesso al pastore delle pecore che ama le proprie pecore e le chiama una per una. Vede il seminatore seminare il proprio campo e applica il seminare e la semente alla parola di Dio che cade in terreni diversi. Grano, vino, otri per liquidi, pesci, pane, acqua, peccatori, adultere, pubblicani tutti è occasione per Lui per diffondere e proclamare la Parola di Dio: da uomo ad altri uomini, non da Dio agli uomini. E per ultimo, non perché meno importante ma proprio perché è la cosa più importante, ERA FIGLIO DELL’ALTISSIMO. L’altissimo è un attributo di Dio che nella Bibbia è ripetuta 113 volte a cominciare dai quei tre versetti di (Genesi cap. 14) [18]Intanto Melchisedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo [19]e benedisse Abram con queste parole: “Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, Creatore del cielo e della terra, [20]e benedetto sia il Dio altissimo, Che ti ha messo in mano i tuoi nemici”. Abram gli diede la decima di tutto. Questo titolo di Dio è a me assai caro: esso mi dà i brividi e mi fa immediatamente pensare alla mia piccolezza, alla mia insignificanza. I padri della Chiesa hanno visto nella figura di Melchisedek, re di Salem, cioè di Gerusalemme, la figura del Messia in generale e di Gesù Cristo in particolare perché offrì ad Abramo pane e vino, i simboli eucaristici. Questo Dio Altissimo che si china fino a terra mandando il suo unico Figlio Gesù che era Dio in tutto e per tutto simile al Padre, costituendo con lo Spirito Santo un’unica persona. Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio perché fosse crocefisso in riscatto dell’uomo. Dio chiese ad Abramo che gli sacrificasse il suo unico figlio, tanto amato. Ma non glielo prese: volle solo provare la sua fede. Il Suo figlio invece lo sacrificò sulla Croce perché l’uomo avesse l’opportunità di salvarsi. Ho detto bene “l’opportunità”, perché nessuno è salvo solo per il sacrificio di Gesù: lo sarà solo chi lo vuole. Dio ha tanto rispetto per la libertà dell’uomo che neppure in questo caso Egli interviene con un’imposizione. L’uomo è libero di scegliere la via del bene o quella del male: anche questo è una manifestazione dell’amore di Dio per l’uomo. Per assurdo possiamo dire che persino l’inferno, la perdizione e la punizione eterna sono una manifestazione dell’amore di Dio: l’uomo è lasciato libero di scegliere anche il male, anche di offendere Dio ignorandolo, negandone l’esistenza e persino maledicendolo, l’uomo è assolutamente libero anche di scegliere per se la morte eterna. Questo è l’amore di Dio. Se Dio costringesse l’uomo non sarebbe più amore: l’amore non può conoscere costrizioni. Dove c’è costrizione non ci può essere amore: amore e costrizione sono tra loro inconciliabili, amore si concilia solo con libertà. Questo Figlio unigenito del Padre, Gesù Cristo, Figlio dell’Altissimo, avrà la stessa natura divina del Padre suo. Egli regnerà sulla casa di Giacobbe- Israele. Giacobbe dalle cui viscere ebbero origini tutte le tribù di Israele, il popolo di Israele e, per antonomasia, tutte le tribù del mondo, tutte le stirpi dei popoli. Questo fu quindi l’annuncio dell’angelo e Maria. (Lc 1, 34) . Maria non gli oppone delle obiezioni umane, ma “ com’è possibile ?”. Che cosa vuol dire? A che cosa si riferisce? Ogni donna ebrea considerava una benedizione di Dio avere un figlio, mentre Maria dice “com’è possibile ciò?” Non è che Maria si riferisse a un’altra realtà ben conosciuta dall’angelo perciò non c’era bisogno di spiegarla? E quale poteva essere questa? E’ un fatto che sulla maternità Maria manifesta un’idea diversa di quella dell’angelo. Maria intendeva dire che certamente l’angelo del Signore era a conoscenza del voto di verginità che lei aveva fatto e quindi non capiva come lei, avrebbe potuto avere un figlio. Che fosse questa l’impossibilità avanzata da Maria se ne ha conferma, quando dice: “ Non conosco uomo”. Se io dico “non fumo”, intendo dire che non ho fumato, che non sto fumando e che non intendo fumare, così Maria diceva: ”Non ho conosciuto uomo e non intendo conoscerlo e tu sai perché”. “Com’è possibile?” (Luca cap. 1) [35]Le rispose l’angelo: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. Ecco che si risolve il problema della maternità conservando la verginità, oggetto del voto di Maria: Lei partorirà un figlio, e non un figlio qualunque ma uno che sarà chiamato Figlio di Dio, rispettando il suo voto di verginità, perché “ su te stenderà la sua ombra, la potenza dell’Altissimo”. (Un’altra lettura del brano è stata proposta leggendo: Colui che nascerà santo e dunque chiamato Figlio dell’Altissimo.) Slm. 17,8 Custodiscimi come pupilla degli occhi, Proteggimi all’ombra delle tue ali, Come dice il salmo, l’innocente troverà rifugio all’ombra delle ali di Dio. Come il popolo ebreo inseguito dal Faraone che lo voleva distruggere. Una nube oscura per il faraone e luminosa per il popolo ebreo proteggeva il popolo in fuga dalla schiavitù. Anche allora l’ombra della potenza di Dio si stendeva sul popolo: “Nulla è impossibile a Dio “. “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo.”. Ecco l’annunzio di un evento eccezionale: ella concepirà senza conoscere uomo. Oggi diciamo che l’angelo le annunziava la sua partenogenesi: una gravidanza spontanea. Se noi crediamo che il Signore sia il Signore del cielo e della terra, anzi di tutto il creato, se crediamo che l’universo nella sua immensità sia frutto della mente di Dio, se crediamo che Dio abbia scritto le leggi che regolano la natura, se crediamo nell’onnipotenza di Dio, perché non dobbiamo credere alla lettera quanto l’angelo, comunicò a Maria. D’altronde non solo noi cristiani cattolici crediamo al concepimento verginale di Maria, ma anche i musulmani lo credono e lo affermano con l’intransigenza che li contraddistingue. Alla Sura 19,17b del Corano troviamo: “Le mandammo allora il nostro Spirito, che apparve sotto forma di uomo perfetto. Maria disse “mi rifugio contro di te nel Clemente, se sei timorato di Dio”. Gabriele rispose. “Io non sono che il messaggero del tuo Signore per donarti un figlio purissimo”. Maria rispose: “Come potrò avere un figlio, se nessun uomo mi ha mai toccata e non sono una donna dissoluta?” Gabriele rispose: “Così sarà! Il tuo Signore ha detto: “ E’ cosa facile per me”. Noi faremo di lui un segno per gli uomini e un atto di misericordia da parte nostra: “È cosa decretata!”. Maria dunque concepì il bambino e…………. Questo il Corano. Anche qui Maria pronuncia il suo SI, si rimette totalmente al volere di Dio. Lei quindi avrebbe avuto un figlio, il Figlio di Dio, senza conoscere uomo, secondo il suo voto. Com’era possibile che nel popolo di Israele ci fosse una donna che non desiderasse la maternità, quando, come dicevamo prima, la maternità era considerata una benedizione di Dio ed espressione della sua compiacenza? Penso, anche se di difficile dimostrazione, che in tutta la Giudea e la Galilea fossero abbastanza diffuse le idee di osservanza della Legge secondo l’interpretazione della comunità di Qumram, degli esseni. Questi predicavano una stretta osservanza della Legge, soprattutto del rispetto del sabato, della purificazione continua, dell’aiuto fraterno ed anche della continenza sessuale e del celibato, almeno per i monaci di Qumram. Si sa (sempre da Giuseppe Flavio) che accanto ai monaci di Qumran vivevano anche delle famiglie sposate. Molte delle loro idee non erano condivisibili, come l’odio per i nemici, i pagani, gli empi, gli storpi, i pazzi, i dementi ecc., ma altre, come quelle citate prima, erano certamente condivisibili e accettate. Non ci sono elementi a dimostrazione di questa tesi, ma certamente Giovanni il Battista ne subì in parte l’insegnamento e lo spirito di rigore morale. D’altronde gli stessi vangeli ci dicono che Giovanni viveva nel deserto e che si nutriva di quanto il deserto poteva offrirgli: locuste e miele selvatico. Giuseppe è molto probabile che conoscesse queste regole di vita e condividesse la stessa tensione morale che poi sarà di Giovanni il Battista, e che, pertanto, ne abbia comunicata notizia a Maria. Giuseppe e Maria erano dunque legati da un patto di castità l’uno e verginità l’altra e per questo la meraviglia di Maria: “ Com’è possibile?” Luca 1,35 Le rispose l’angelo: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. Ecco un altro elemento importantissimo: “Colui che nascerà sarà santo”. Che cosa significa la parola “SANTO” nella Bibbia dove ricorre 354 volte? Innanzi tutto che è separato, diviso da tutto ciò che santo non è. Il Santo dei Santi era separato da un velo dal resto della tenda del deserto e così pure nel tempio di Gerusalemme. Esodo 26,33 Il velo sarà per voi la separazione tra il Santo e il Santo dei santi. Il Signore è separato da tutto ciò che non è santo e da tutto ciò che non è puro e santo. Egli è il santo per antonomasia e rende santo chi vuole. Certamente non poteva rimanere impuro il corpo di chi doveva ospitare il Suo Unigenito: Maria pertanto era pura e santa. (Levitico cap. 19)[2]”Parla a tutta la comunità degli Israeliti e ordina loro: Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo. La Sua Santità è motivo di gioia, come dice Isaia profeta Is 12, 6) “Gridate giulivi ed esultate, abitanti di Sion, perché grande in mezzo a voi è il Santo di Israele”. Questo è il motivo della gioia di Maria come le suggerisce l’angelo. Ma siccome lei, sull’esempio di Samuele, doveva dichiarare la sua disponibilità a Dio rispose: (Luca cap. 1)“Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”. E l’angelo partì da lei. Maria, quasi certamente, non si rese conto a pieno del suo “SI’”, ma era convinta di essere al servizio del Signore e questo le era più che sufficiente. (Luca cap. 1) L’anima mia magnifica il Signore [47]e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, [48]perché ha guardato l’umiltà della sua serva. Il Signore si era degnato di volgere il suo sguardo su quest’umile serva, e questa sua umiltà era la sua gloria. E intanto Giuseppe? (Matteo cap. 1) [19]Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. Spesso ci hanno presentato un San Giuseppe roso dalla gelosia, o, almeno, dal dubbio, preoccupato dei mormorii della gente del villaggio. Però Giuseppe era giusto. Giusto agli occhi del Signore significa senza peccato alcuno, completamente in pace con Lui, in perfetto accordo con la Giustizia di Dio. Ma allora perché Giuseppe pensava di allontanare Maria da sé? Non è più logico pensare che lui volesse allontanarsi da Maria, perché in tutta questa storia, di cui era certamente a conoscenza, non vedeva un suo ruolo. “ Maria”, pensava Giuseppe, “ rimane incinta per opera dello Spirito Santo di Dio per un compito che alla stessa Maria è vago e incomprensibile, ed io che ci sto a fare? Posso IO, che sono “niente”, ostacolare la volontà del Signore? Posso IO intralciare i Suoi disegni?” Non sapendo cosa fare pensò in cuor suo di rimandarla in segreto, senza fare scandalo, proprio per assecondare i progetti del Signore. Mentre però: (Matteo cap. 1) [20]Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. [21]Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. [24]Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa, [25]la quale, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio, che egli chiamò Gesù. Ecco che Giuseppe viene così a conoscere il suo ruolo in questo progetto di Dio, da cui lui non è escluso ma che deve portare avanti con Maria. (Luca cap. 2)[19]Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore. E questo ovviamente valeva anche per Giuseppe che conservava nel suo cuore tutti questi avvenimenti e li meditava. Per Giuseppe non erano necessari grandi discorsi, bastava un piccolo cenno e Giuseppe obbediva: Matteo cap. 2) “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo”. [14]Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto. E se Maria sentirà il bisogno di magnificare il Signore che aveva guardato l’umiltà della sua serva non di meno, lo sentirà Giuseppe, che umilmente come visse e agì, sparì, senza lasciare altre tracce di sé, essendo la sua luce offuscata e quasi annullata dalla luce abbagliante del Signore. La sua luce non brilla non perché fiocca o senza meriti, ma perché noi siamo abbagliati dalla luce sfolgorante del Salvatore, cui fu padre generoso, premuroso e umilissimo. Povero San Giuseppe, espropriato persino della sua festa solenne il 19 marzo, relegato quasi nel dimenticatoio, ma che fa brillare ancora per chi la vuole e può vederla la sua luce fatta di purissima fede e di tanta, tantissima umiltà. San Giuseppe come visse tutti questi avvenimenti? Certamente non fu semplice spettatore, come abbiamo visto nell’Annunciazione a Maria: Giuseppe era certamente informato di tutti questi avvenimenti e li visse in prima persona condividendone con Maria, sua sposa, ambasce, dolori, preoccupazione e ansie come tutti i comuni mortali. Altra ipotesi. Giuseppe e Maria forse avevano fatto, come tutti gli sposi, dei progetti sulla loro vita coniugale, forse pensavano di condurre diversamente la loro vita. Il Signore però aveva altri progetti. Essi si sottomisero alla volontà del Signore pur non comprendendo cosa, effettivamente, il Signore voleva da loro. Ma pur non comprendendo essi si piegarono in umiltà e abbandono totale alla volontà di Dio. Non sospettavano neppure quali difficoltà e dolori avrebbero dovuto superare, specialmente Maria, spettatrice impotente alla crocifissione del Figlio. Tutta questa storia rivisitata criticamente nell’ambito della fede costituisce per noi, come lo è stato per tanti cristiani nell’arco di 2000 anni, un fulgido esempio di umiltà, di sottomissione completa e senza mormorazioni o rimpianti al volere di Dio. Quali sono le nostre considerazioni per finire? Ora sappiamo quale fu il ruolo di Giuseppe e di Maria nell’opera di redenzione che il Signore si degnò di mandare all’uomo, ma forse ci sfugge ancora il simbolismo della loro figura umana. L’Antico Testamento ha avuto i profeti che spiegavano al popolo, quale fosse il volere di Dio, il Nuovo Testamento ha i Santi che con la loro vita ci hanno illustrato nei secoli quali, deve essere il comportamento del credente ed ha gli esegeti che con i loro studi approfondiscono la parola di Dio rivelata nella Bibbia per far conoscere al cristiano il modo di intendere e interpretare non solo determinati fatti e avvenimenti, ma anche singole e semplici parole. E questo lavoro va avanti fin dall’origine del Cristianesimo, fin dai Padri Apostolici che ci hanno lasciato esempi d’interpretazioni ancora oggetto di ammirazione per le loro intuizioni. Per esempio: passaggio del Mar Rosso e Battesimo, manna ed Eucaristia, salvezza portata dal serpente di bronzo innalzato sull’asta nel deserto e salvezza data dalla Croce di Cristo, ecc. Sono solo qualcuna delle intuizioni dei Padri Apostolici.

sabato 24 ottobre 2009

RIFLESSIONI

mercoledì 21 ottobre 2009

Vi sono tre categorie di scritti
a) Lectio Divina
b) Ritratti di donne
c) Parole